L’Associazione I.T.A.C.A riporta qui l’articolo di Maria Ulrika Widén (2014) “L’Arte come Strumento di Counselling e le Esigenze di Protezione”, pubblicato nel Quaderno delle Giornate di studio di Lavarone 2013 (pag 241-248).
L’ARTE COME STRUMENTO DI COUNSELLING E LE ESIGENZE DI PROTEZIONE
Maria Ulrika Widén
Riassunto
L’articolo presenta un’esperienza di arteterapia come strumento di counselling analitico-transazionale con un gruppo di ragazzi di prima media e sottolinea la necessità di assicurare protezione (e le tecniche per farlo) ai partecipanti impegnati in processi emotivi.
Esprimersi attraverso l’arte ha un aspetto ludico e creativo nel setting del counselling e ha anche la potenza di smuovere vissuti profondi, una potenza che richiede di essere gestita con prudenza, in particolare quando possa interferire con processi di elaborazione di lutto o altri traumi. A volte conosciamo la storia dei nostri clienti e non ci sorprendiamo quando esprimono esperienze intense della loro vita, a volte non conosciamo questi aspetti e possiamo rimanere sorpresi davanti a sofferenze espresse improvvisamente.
Quello che presento è un mio sguardo personale, soggettivo e amorevole di quello che è successo.
L’intervento ha riguardato un gruppo di cinque ragazze e tre ragazzi della prima media. Questa fascia d’età è collocata da Pam Levin nel V stadio, del “Potere di essere abili” (da sei a dodici anni): in questo periodo i ragazzi sviluppano le abilità che credono serviranno loro nella vita, in accordo con la loro identità. Dagli adulti imparano diverse possibilità di strutturare il loro mondo. I ragazzi in questa fase a volte sono collaborativi e compiacenti, a volte provocatori: stanno testando la loro identità per mostrare la validità delle loro decisioni (Levin, 1982).
Prima dell’intervento ho incontrato l’insegnante di riferimento della classe, che mi ha spiegato che nel gruppo ci sarebbe stato un ragazzo, Giovanni (il nome, come gli altri del testo, è di fantasia), la cui madre era morta suicida l’anno prima. Il ragazzo era stato mandato in terapia ma finora non aveva voluto parlare dei suoi vissuti. A volte a scuola si nascondeva sotto i banchi ed evitava gli altri ragazzi. Ho pensato che nel gruppo avrei dovuto affrontare la paura. La paura di Giovanni che si nascondeva sotto il banco, forse la paura di qualcuno degli altri membri davanti a un’esperienza nuova e a me, adulto sconosciuto, e sicuramente la mia paura di non trovare un modo adeguato di rapportarmi a questo nuovo gruppo, una paura di dare troppa oppure troppo poca importanza alla sofferenza di Giovanni e cosi non offrire adeguata Protezione a lui o agli altri partecipanti. Ho pensato però che in questo caso la paura era probabilmente un sentimento autentico e appropriato e riconoscerla sarebbe stato il primo passo verso un lavoro riuscito, quindi ero fiduciosa.
Ognuno dei partecipanti mostrava a suo modo segni d’integrazione difficile nel contesto sociale e scolastico. Abbiamo così deciso, la professoressa di riferimento ed io, di non spingere né Giovanni né gli altri membri del gruppo a parlare, ma di offrir loro la possibilità, il Permesso (Crossman, 1966), sia di esprimersi liberamente tramite la creazione artistica o con le parole, sia di non esprimersi a chi non volesse. Questo atteggiamento, in un ambiente protetto, promuove la Potenza dei conduttori di gruppo di prenderci cura dei bambini spaventati dei nostri clienti e dare un esempio di quel modellamento di cui parla Levin.
Ho citato Pat Crossman, a cui ci si riferisce quando si parla delle “3 P” (Permesso, Protezione e Potenza), che tuttavia, nel suo articolo “Permesso e Protezione”, parla solo di due P, pur accennando già indirettamente alla terza “P”, la Potenza, quando si riferisce alla “forza” del terapeuta:
Con Permesso […] intendo una transazione specifica tra il terapeuta e il paziente in un punto particolare della terapia, in cui il terapeuta influenza un cambiamento del comportamento del paziente. Un cambiamento che prima d’ora sarebbe sembrato impossibile o insostenibile. Il Permesso ha a che fare con il copione. (Crossman, 1966)
Quando si mette in discussione il copione serve protezione: Crossman parla di una protezione che la madre offre al figlio spaventato, sorridendo in modo da rassicurarlo. Quando una persona decide di prendere decisioni che non corrispondono al suo copione ha molto bisogno di essere riassicurata e questo è un compito dell’analista. Crossman dice che, per riuscire a essere convincente in questo processo, il terapeuta deve essere più forte del genitore originale della paziente. Sarà Claude Steiner a parlare di “Tre P” aggiungendo la Potenza:
Il Permesso è […] una situazione in cui l’educatore o terapeuta dice: «Puoi fare quello che i tuoi genitori o altre persone ti hanno detto di non fare». Quando una persona si prende un permesso terapeutico e va contro richieste e desideri dei genitori, il loro Bambino ha molta paura. Per questo la Protezione è una parte molto importante del cambiamento. La Protezione è offerta dall’insegnante o terapeuta, preferibilmente in un gruppo, a una persona che sta per cambiare il proprio copione […]. Il terapeuta e il gruppo offrono protezione alla persona quando dicono: «Non ti preoccupare, tutto andrà bene, ci prenderemo cura di te quando avrai paura». […] il Permesso e la Protezione aumentano la Potenza terapeutica dell’analista transazionale introducendo il genitore affettivo nella situazione. (Steiner, 1969)
Più avanti Steiner aggiunge: «tramite l’analisi attenta delle transazioni, con il potere di dare alle persone il permesso di cambiare e proteggendole dalla paura, è possibile per tutti gli infelici senza amore di diventare felici, pieni di amore e produttivi».
Jane Illsley Clarke aggiunge:
Ci sono regole che prevedono Protezione e Permessi e che aiutano le persone a prendere decisioni e a crescere. Assicurano un luogo sicuro dove le persone potranno testare nuovi comportamenti, cambiare le loro parole, considerare attitudini e bisogni. Regole che creano una cornice e che danno valore alle persone, se sbagliano le proteggono dall’imbarazzo. Queste regole di base per un lavoro di gruppo sono:
1. Tutti partecipano (anche il leader)
2. Tutti hanno il diritto di non parlare quando non vogliono.
3. Tutte le opinioni sono onorate.
4. La riservatezza è garantita.
5. Il leader mantiene una posizione rispettosa verso sé e gli altri (Clarke, 1984).
Tornando al “mio” gruppo, dopo un paio d’incontri il lavoro stava procedendo bene. I ragazzi partecipavano in modo attivo e mi sentivo soddisfatta di come interagivano tra loro durante gli esercizi. Parlavano poco ma si rispettavano tra loro e l’atmosfera era serena. Giovanni partecipava in modo attivo disegnando e a volte interagiva con gli altri verbalmente.
Tra un appuntamento e l’altro, l’insegnante mi ha chiamato per dirmi che una ragazza nel gruppo, Daniela, aveva avuto un lutto improvviso: suo padre era morto d’infarto.
Ho sentito un grande dolore per Daniela. Poi di nuovo, un senso di paura. Mi chiedevo come comportarmi in una situazione così delicata. Pensai che avrei avuto tempo per riflettere e vedere la reazione degli altri ragazzi del gruppo perché forse Daniela sarebbe stata assente da scuola per qualche giorno, ma mi sbagliavo. Daniela è tornata subito a scuola dopo l’accaduto e due giorni dopo era con noi nel gruppo. Le ho espresso il mio dolore per quello che le era successo, e le ho chiesto se voleva dire qualcosa al gruppo prima di cominciare il lavoro della giornata. Mi ha detto di no, e di nuovo ho pensato al Permesso di non dover per forza parlare.
Ho deciso però di dare un’opportunità a Daniela e agli altri del gruppo di esprimersi, non parlando direttamente dei vissuti dolorosi, ma facendo l’esercizio della “storia inventata”. L’esercizio funziona così: ogni membro del gruppo fa un disegno a tema libero, dopodiché ognuno prende il disegno di un altro e comincia a inventarsi una storia. Il partecipante successivo prende un altro disegno, continua la storia e cosi via finché i disegni finiscono.
Il gruppo ha partecipato attivamente, finché Giovanni e Daniela hanno preso in mano la storia e non hanno più rispettato i turni. Ho dato loro il Permesso di farlo, non intervenendo. Questi sono i disegni (vedi fig. 1) e questa è la storia che i ragazzi hanno inventato, dal titolo La Fine del mondo in otto disegni:
1. Ci sono due ragazzi che stanno facendo i graffiti (disegno 1).
2. Arriva un’anatra che manda a quel paese la bandiera svizzera.
3. Perché secondo lei gli svizzeri hanno una faccia di merda, ma Sanna (una ragazza svizzera del gruppo), no.
Daniela: Arriva un lupo, vede un fantasma che ha imbrattato il muro e si chiede: «I fantasmi esistono?».
Giovanni: Arriva un altro fantasma, dice: «I fantasmi esistono, guarda me, sono un fantasma speciale».
Daniela: Dopodiché mangia i tre fiori, di cui uno è un fiore fantasma. I fiori danno una potenza tale da distruggere il mondo.
Giovanni: E lo fa. (il dipinto colorato)
Quando ci siamo salutati, avevo la sensazione che il lavoro fosse stato importante. Daniela e Giovanni si erano parlati per la prima volta. Gli altri ragazzi erano silenziosi ma partecipi. Il gruppo aveva probabilmente svolto ancora una volta la sua funzione: «Un gruppo è come un microcosmo dell’esistenza umana, con grande potenzialità sia per distruzione che per guarigione. Il gruppo è probabilmente il veicolo più potente per cambiamento individuale e sociale» (Clarkson, 1991).
E sa assecondare bene la physis, la spinta verso la guarigione che secondo Berne esiste in tutti: «È una forza generativa e creativa che eternamente lavora per far crescere le cose e far diventare le cose che crescono più perfette» (Berne, 1968). Il concetto di physis in quel momento significava per me che potevo fidarmi della naturale spinta a evolvere e a stare bene dei ragazzi: il mio compito era solo quello di assecondarla e sostenerla.
La settimana dopo ho scelto di rifare lo stesso esercizio, visto che i ragazzi erano stati così partecipi. Questa volta il tema della morte non è stato soltanto toccato da Giovanni e Daniela ma anche dagli altri ragazzi (vedi fig. 2).
Il titolo della storia è stato: La fine della prof. Rossi e Company.
C’erano una volta degli UFO volanti che volavano.
Dentro uno di questi UFO c’era un alieno che sembrava Bob Marley.
Daniela: «Stava andando sulla terra per ammazzare Winnie The Pooh».
Winnie The Pooh, che stava andando con la macchina, investe la prof. Rossi.
Perché era passata con il rosso e non era neanche sulle strisce pedonali.
Una bambina, mentre stava pattinando sul ghiaccio, vide una macchina.
In un bosco. Lei la ruba, fa un incidente e vede il mondo a puntini.
Giovanni: «Si trova nel mondo Ninja».
L’alieno Bob Marley arriva sulla terra e mangia Winnie The Pooh, dopodiché muore di indigestione.
La bimba si perde nel mondo Ninja, non trova da mangiare e muore anche lei.
Cosa pensare di tutti questi morti?
Non ho una risposta certa. Quello che posso dire è che nella prima storia emerge soprattutto l’interazione tra Daniela e Giovanni, il gruppo partecipa in silenzio, si parla della morte, si nomina lo sconosciuto, si sfiora il dolore. Il fiore fantasma distrugge il mondo (e noi siamo impotenti).
Nella seconda storia, piena di morte anche quella, emerge un’energia diversa, più attiva: tutti partecipano, come per elaborare insieme quello che è avvenuto e sembrano soddisfatti della conclusione cui sono arrivati.
Dopo la creazione della storia si è creata un’ottima atmosfera nel gruppo, davvero potente. C’era stato il Permesso di parlare liberamente della morte, di esprimere i propri sentimenti, di non doversi censurare per compiacere a “regole” sociali.
C’è stata la Protezione del setting. Il gruppo rappresentava un luogo sicuro e il mio ruolo era di contenere il processo. Anche l’insegnante era parte di questo processo: era presente, osservava, non giudicava. Era il nesso tra noi e la scuola e ha protetto il nostro spazio.
La Potenza si sviluppa nel gruppo, nelle sue dinamiche, nel suo evolvere e i conduttori la sostengono, accompagnandone il processo di sviluppo e garantendo il contenimento, holding (Hargarden & Sills, 2002).
A volte ci sentiamo minacciati da qualcosa che non sappiamo bene cos’è. Nel mio caso avevo paura di parlare della morte. Quando ne sono diventata consapevole, mi sono resa conto che parlare della morte non è necessariamente pericoloso. Può essere doloroso, avevo probabilmente paura di affrontare quel dolore, legato alla tristezza della perdita. La consapevolezza dei nostri vissuti spiacevoli è il primo passo per stare meglio. Quando sono diventata consapevole dei miei vissuti all’idea di parlare della morte, mi sono data il permesso di farlo, e ho potuto cosi dare anche al gruppo lo stesso Permesso, favorendo l’espressione dei vissuti dei partecipanti, mettendomi nella posizione di accoglierli e contenerli emotivamente. Ho avuto fiducia nella physis, sapendo che se i ragazzi avessero affrontato il tema della morte, lo avrebbero fatto “sentendo” che ne avevano bisogno. Essere tristi va bene. La tristezza è un sentimento autentico, quando è appropriata, come dopo la perdita di una persona cara. Possiamo quindi dare a noi stessi e agli altri il Permesso di essere tristi, per quanto questo possa essere spiacevole.
Siamo potenti quando offriamo a chi abbiamo davanti un incontro autentico, con autentiche emozioni. La verità accresce la nostra potenza, perché rivela che non abbiamo bisogno di nasconderci, ma siamo forti a sufficienza per affrontare la realtà. Possiamo offrire strumenti e modellare i processi, rispettando il percorso di ciascuno: un Permesso alla autenticità che durerà anche dopo che ci saremo detti «Arrivederci» e concluso il nostro percorso insieme.
Bibliografia
Berne, E. (1957). A Layman’s Guide to Psychiatry and Psychoanalysis. New York, NY: Simon and Shuster.
Clarkson, P. (1991). Group Imago and the Stages of Group Development. Transactional Analysis Journal, 21, 1, 36-57.
Crossman, P. (1966). Permission and Protection. Transactional Analysis Bulletin, 5, 19, 152-154.
Hargaden, H. & Sills, C. (2002). Transactional Analysis: A Relational Perspective. Hove, UK: Brunner-Routledge.
Clarke, J. I. (1984). Who, Me Lead a Group? Minneapolis, MN: Winston Press.
Levin, P. (1982). The Cycle of Development. Transactional Analysis Journal, 12, 2, 129-139.
Steiner, C. (1969). TA Made Simple. Berkeley, CA: RaPress.