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ARTICOLO Dolores Munari Poda: Non dimenticando il suo sorriso e la sua grazia
di Dolores Munari Poda

Per gentile concessione della Società Italiana di Metodologie Psicoterapeutiche e Analisi Transazionale (SIMPAT), l’Associazione I.T.A.C.A. riporta qui l’articolo di Dolores Munari Poda  “Non Dimenticando il suo Sorriso e la sua Grazia: il suo Silenzio”, pubblicato nel numero 16, anno XXVIII, 2007, pag 33-44 della Rivista Italiana di Analisi Transazionale e Metodologie Psicoterapeutiche.

NON DIMENTICANDO IL SUO SORRISO E LA SUA GRAZIA: IL SUO SILENZIO

di Dolores Munari Poda

 

Prendendo a prestito la misteriosa dedica di Eugenio Borgna (2005), L’attesa e la speranza ho desiderato riascoltare il silenzio di una bambina.

Ho preso a prestito questo titolo dalla dedica di un libro di Eugenio Borgna.

Il libro è L’attesa e la speranza (2005). Ho molto amato il libro e molte volte riletto anche la sua misteriosa dedica.

L’ho a lungo ripensata e, alla fine, ri-dedicata a due bambine, una bimba reale, ospite settimanale del mio studio, e una bimba che avrei desiderato conoscere da piccola, avendola invece conosciuta da grande attraverso la sua opera letteraria.

La Grande si chiama Agota Kristof, la piccola l’ho ribattezzata Hope per una serie di coincidenze e di riferimenti affettivi, e per la speranza contenuta nel suo nome.

La Piccola, all’inizio, piangeva e disegnava certe sue cose segrete.

La Grande scriveva e forse piangeva dentro di sé, come si piange da adulti. Silenziose ambedue.

Disegnare e scrivere sono modi per comunicare senza voce, se per voce intendiamo il suono della voce.

«Senza lo spreco di un suono» direbbe Pino Roveredo (2005).

Con la riservatezza di un codice segreto.

Roveredo è un autore geniale e, quando parla del silenzio, sa quello che dice perché è figlio di genitori sordomuti:

Io prima di imparare i rumori, ho conosciuto il silenzio.

E nel mondo del silenzio, per comunicare, bisogna avere l’educazione della presenza e la cortesia dell’attenzione (Roveredo, 2005).

Del resto, ci ricorda Antonio Prete, la lingua della madre è abitata anzitutto dal silenzio.

È essa stessa, una fuga di silenzi, o un disporsi di silenzi all’ombra delle sillabe, nel cuore inudibile delle vocali, nei margini spenti delle consonanti […].

La lingua materna è anzitutto, per I‘infante, lingua di vocali: aerea, leggera, impalpabile.

Ma anche indeterminata, fluida, musicale… (Prete, 2003).

La Grande e la Piccola avevano una passione in comune: la loro casa.

Forse più che una passione: quasi uno strazio.

La Piccola, con gesti incantevoli delle mani, amava disegnarla come un eloquente faro di luce calda.

La Grande la dipingeva con le parole in ogni suo libro, quasi sempre affidando ruoli protagonisti ai bambini.

La Piccola non avrebbe voluto lasciarla mai la sua casa, né di notte né di giorno e, se doveva, cercava di avere con sé almeno un famigliare importante, meglio il padre o la madre, una sorta di prolungamento della casa stessa.

Appena appena poteva staccarsene per andare a scuola, ma non – per esempio – per recarsi di pomeriggio in oratorio a giocare con i fratelli e gli amici.

La Piccola soffriva dei disagi che costellano la vita di alcuni bambini particolarmente dotati.

Poiché essi vivono in maniera intensissima i loro moti interni, ogni situazione mondana può diventare potenzialmente esplosiva: andare a scuola, lasciar casa, frequentare luoghi pubblici, vivere il quotidiano con i coetanei.

Si proteggono dietro fragili paraventi di generici mali ai più vari organi, la testa, la pancia, gli occhi, la gola, tenendo cosi in ostaggio domestico la famiglia intera.

In compenso, ferve e urge in loro una vita interiore solitaria che si nutre di ogni frammento del reale diventando spesso ansiogena e perturbante.

I sacri testi formulano diagnosi “fisse“ che finiscono per incatenare la creatura al suo male in una sorta di legame perverso.

Proprio per evitare la cronicizzazione della sofferenza, la famiglia di Hope aveva optato per un precoce supporto terapeutico.

La Grande, la casa aveva dovuto abbandonarla, e con la casa, la madre, il padre, i fratelli, e la propria lingua.

Agota Kristof è ungherese, da tempo approdata a Neuchâtel dopo aver lasciato l’Ungheria nel 1956. Allora era una donna di ventuno anni in fuga con un figlio di qualche mese, e un dizionario, unico suo bene e unico conforto d’esilio.

Scrive così a proposito di case e di traslochi dando la parola a uno dei suoi personaggi bambini:

Aveva dieci anni. Era seduto sul marciapiede, guardava il camion su cui caricavano mobili e casse.

Che cosa fanno? – domandò a un compagno di strada venuto a sedersi al suo fianco.

Caspita! Stanno traslocando, – disse quello.

Mi piacerebbe diventare traslocatore. E un bel mestiere. Bisogna essere forti.

Vuoi dire che vanno a vivere in un’altra casa?

Per forza, se traslocano.

Poverini! Hanno avuto una disgrazia?

Perché una disgrazia? Al contrario. Si ritroveranno in una casa più grande e più bella. Al posto loro sarei contento.

È rincasato, si è seduto nell’erba del giardino e ha pianto.

Non è possibile. Lasciare una casa per un’altra, è triste come se avessero ucciso qualcuno (Kristof, 2005).

Cosi scrive Agota Kristof. Scrive in francese, in una che lei definisce “non-amata” lingua straniera.

In esilio, ha imparato a scrivere insieme alla ?glia bambina nella lingua necessitata, imposta dal caso, dalle circostanze, scegliendo il modo e lo stile lucido e rarefatto dei bambini quando apprendono a scrivere e formulano i loro primi pensieri autonomi, quelli che nell’infanzia scolastica venivano un tempo chiamati “pensierini”, quelli che raramente gli educatori lasciavano nella limpida e spesso dissacrante, formulazione originaria.

Nel silenzio, nel deserto della lontananza, solo scrivendo, anche se non nella sua lingua materna, la Grande ha ricominciato ad “esistere”.

È già difficile scrivere nella propria lingua materna.

E in un’altra lingua?

Dico: ci provo, tutto qui. Che la cosa vada o non vada mi è indifferente (Kristof, 1997).

Terribile la perdita della propria lingua quando essa sia l’unico bene rimasto nella distruzione sistematica delle cose e nello sconvolgimento degli affetti.

Ho lasciato in Ungheria il mio diario della scrittura segreta, anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci (Kristof, 2005).

Penso a Paul Célan, romeno di lingua madre tedesca, vivente a Parigi dopo la tragedia che lo privò della sua famiglia che – nell’Allocuzione che tenne a Brema nel 1958 quando gli fu conferito il premio letterario di quella città – disse una sola cosa:

Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite: la lingua. […]

In questa lingua, nel corso di quegli anni e degli anni successivi, ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà (Célan, 2005).

Gli Studiosi di linguistica che si occupano di lingua materna e lingua straniera sono ormai concordi nel definire la lingua materna una “lingua di partenza” o di “riferimento”, in quanto la vera lingua materna non è quella parlata dalla madre ma quella in cui avviene la prima socializzazione.

Sono altresì concordi nel considerare che le lingue sono musiche, ovvero “corpi sonori” e che la loro appropriazione avviene sempre sulla base della loro materialità fonetica o vocale, in grado di suscitare affetti e fantasmi.

Nel momento in cui si entra a contatto con una nuova lingua, dice Gisele Pierra (2003), può crearsi una sorta di “dispersione dell’Io” che genera disagio profondo se altri tipi di affetto non vengono a ripararla positivamente.

Le frontiere legate all’avvicinamento a una lingua possono essere superate nel momento in cui, attraverso i suoni, si creano immagini e rappresentazioni, si entra in un “movimento” che comporta fluttuazioni a volte anche molto dolorose.

Ci provo, avrebbe detto Agota Kristof. E basta.

Senza lo spreco di un suono.

E senza lo spreco di un suono è iniziato anche il percorso con Hope.

Come se anche Hope si fosse detta: Ci provo, quando provò a comunicare con i segni prima che con i disegni, e prima delle parole.

Hope aveva poco più di nove anni. Era una bimba morbida e compatta, di forme tranquille e raccolte.

Ci presentarono. Lei conosceva le ragioni del nostro incontro e, a casa, si era detta d’accordo nel “farsi aiutate”, ma sulla soglia dello studio, alla sola idea che i suoi genitori potessero sparire temporaneamente alla sua vista, esordì piangendo subito lacrime rotonde come perle.

Non ne avevo mai visto l’uguale.

In quel primo saluto pianse ferma e silenziosa dietro i genitori imbarazzati.

Non ebbi l’animo di separare il piccolo gruppo dolente e decidemmo per un incontro congiunto.

Disegnarono tutti, padre, madre e Hope, nel più grande silenzio.

Pareva d’essere in una cattedrale.

Noi, Hope e io, ci siamo sedute vicine, alla scrivania, con davanti fogli e colori.

Parole, soltanto le mie, poche e brevi, di ri-conoscimento e di benvenuto.

Poi, solo segni.

Pensando a Winnicott (1970), e ai suoi modi di fare reciproca conoscenza anche con i bambini di altra lingua, optai quasi subito per una “partita a squiggle”, come Hope, in tempi successivi, chiamò il gioco winnicottiano degli scarabocchi.

Un modo gentile e pudico di stare sedute accanto, reciprocamente rispettando tempi e fantasie, in una vicinanza cauta e delicata, nel silenzio, ai margini dell’ignoto.

La prima volta lavorammo a occhi aperti, ottenendo come risultato un curioso punto di domanda dal senso inequivocabile. “Che ci facciamo qui?”

Il secondo squiggle fu “una mamma con un bambino nella carrozzina”, squiggle realizzato dopo una curiosa combinazione grafo-dialogica, una conversazione silenziosa fatta di linee e di sguardi con annessa storia scritta da Hope di suo pugno.

«C’era una volta una mamma con un bambino. Il bambino stava nella carrozzina. Era il primo bambino della sua mamma. Lei stava sempre a casa felice con il suo bambino.»

Un disegno di speranza verso una femminilità tranquilla, risolta, avvolgente…

Un desiderio di accudire o di essere accudita forse, o portata in carrozzina. Chissà.

È stato questo, credo, l’inizio favoloso della nostra alleanza.

“C’era una volta”, come una fiaba per noi due.

Poche frasi essenziali. Uno sguardo limpido e intenso, pieno di partecipazione emotiva.

Come diceva Anna Freud, i bambini possono dirci tutto con lo sguardo, sta a noi aggiungere le parole.

Con attenzione. Sperando – da un lato – di essere all’altezza e – dall’altro – di non essere una di quelle persone che Fleur ]aeggy giudicherebbe persone incaute, che esprimono subito giudizi. Non sanno cosa sia il vuoto.

Hope, di suo, alitava pochissime parole sottili. Uscivano tra un sorriso tentato e una lacrima riuscita.

Nacque come terzo squiggle un gabbiano bambino chiamato Razzo, che faticava, essendo un poco tondo, a mettersi in moto, nonostante il nome beneaugurante.

Sembrò alla terapeuta una sorta di metafora di quanto avveniva nella stanza d’analisi.

Nella fatica di prendere il volo, nella quiete soltanto apparente dei suoi modi riservati, Hope sembrava esperire il suo Essere-nel-mondo in maniera privatissima, proteggendosi con cura da incursioni, invasioni, interpretazioni.

Per lunghi mesi, pazientemente tracciando, Hope e la terapeuta, semplici segni colorati, hanno attraversato piccole favole e semplici storie inventate e scritte in due e poi rilette a voce molto bassa, appena oltre il silenzio.

Erano parole indifese, molto vulnerabili, impaurite.

Per trovare conforto, la terapeuta rileggeva intanto Paul Célan Cerca di ascoltare anche chi tace, un libro dal titolo adeguato al momento, e concordava con Célan che, di sé, diceva:

In fondo sono anche uno che, se svolta all’angolo di una strada, spera di trovare un piccolo arcobaleno, non più grande di un anello […].

Devi cercare di ascoltare anche chi tace: egli vorrebbe avere voce, farsi sentire, solo che ancora non ci riesce (Célan, 2005).

La terapeuta sperava nell’apparizione dell’arcobaleno.

E di un arcobaleno, anche più grande di un anello, Hope aveva davvero bisogno per le sue faticose giornate di scuola.

Hope non era una bambina che si potesse chiudere in uno schema evolutivo precostituito, scandito da fasi di apprendimento una di seguito all’altra previste e prevedibili, dove la crescita sia catalogata partendo da acquisizioni sociali, comportamentali e/o di varia competenza.

Nessun bambino peraltro andrebbe in realtà soppesato unicamente o prioritariamente secondo il suo profitto apparente, come se l’infanzia fosse soprattutto un programma di prestazioni.

A scuola Hope custodiva dentro una sua modalità interiore pensosa di sé e del suo prossimo, la dimensione spirituale essendo in lei elemento dominante.

Ci sono bambini rotondi e bambini quadrati direbbe Grossman, e ci sono formidabili bambini a zig zag.

Ci sono bambini interessati al quotidiano e ce ne sono altri ansiosi di dare un significato non convenzionale a ciò che accade dentro e fuori, il cui tema esistenziale profondo si configura invece in una ricerca costante e continua del senso dell’esistere e, nel caso di Hope, come poi scoprimmo, del suo esistere in qualità di donna.

Per Hope ancora nessuna parola per dirlo, ma di squiggle in squiggle, arrivammo ai sogni, come sapeva Winnicott (1970).

Nel cammino incontrammo un lungo susseguirsi di fronti meteorologici con zone di alta pressione che avanzavano con grande potenza, appena una depressione si era allontanata (Bollas, 2006).

Hope non consumava parole, la terapeuta traduceva secondo il codice di Rovereto (2005). Anche le cose più semplici e care non si possono mandare a dire, è un obbligo dimostrarle, così un abbraccio abbraccia, un bacio bacia e una carezza accarezza.

Piccoli segni che hanno la forza fantastica di costruire e spiegare l’attività dei sentimenti per arrivare – con Hope – alle parole della “lingua materna”.

Nell’espressione “lingua materna” si dispiega un’esperienza affollata di voci e di gesti, di scoperte e di incantamenti, di malinconie prive di nome, di attese spaventate dei fantasmi dell’inaccaduto. Esperienze di un tempo che, in un certo senso, non è ancora tempo: al di qua, dunque, della scansione, del traguardo, del passaggio. Tempo senza orologio, immobile: eppure in quella immobilità si aprono ventagli di suoni, sinopie di ricordi, intrecci di voci. Ma è soprattutto una voce – con il suo andirivieni di toni, con le sue modulazioni sonore – a rompere il muro del tempo immobile. Per farsi tappeto di altri possibili suoni, di altre voci (Prete, 2003).

«Ho sognato un mostro» disse un giorno Hope, molto emozionata, quando ormai – trascorsi parecchi mesi – anche le sue parole non erano soltanto pensabili, ma anche dicibili.

Ci si incontrava soltanto quindicinalmente in quella nostra stagione di terapia (era il secondo inverno) per ragioni diverse, di distanza tra il luogo dell’abitare e il luogo della cura, soprattutto.

Il che spiega anche in parte l’ansia antica di Hope nell’intraprendere il viaggio reale da casa alla stanza d’analisi l’anno precedente, che era stato il nostro primo di storia e di storie insieme.

Cominciò qui un altro viaggio, una sorta di percorso di iniziazione che avvicinò molto Hope e la sua terapeuta.

Un percorso che aveva evidentemente richiesto per lei quel lungo esercizio del silenzio.

Hope era cresciuta non tanto di statura e nemmeno particolarmente di forme, ma era cambiato lo sguardo sulle cose della vita, o forse la terapeuta era maggiormente in grado di coglierlo avendo nel frattempo a lungo riflettuto sul mistero del decimo anno delle bambine, con alterni umori celebrato poco prima anche da Hope.

E poi – si sa – ce lo ricorda Bollas (2006), non ci sono solo i nostri compleanni: la vita ha tanti compleanni per le diverse fasi. E qui sicuramente si trattava di una fase vitale. Entrammo dunque nel mondo dei sogni di Hope.

Il primo, drammatico, fu il caso della signora costretta a bere l‘alcol.

La terapeuta formulò caute domande su possibili associazioni con il quotidiano, cui Hope oppose un inquieto non so.

La terapeuta allora non ritenne opportuno insistere ricordando come Winnicott parlasse del non comunicare come di un diritto di ogni soggetto, e ancor più del paziente nella relazione analitica.

il semplice non comunicare – osservava Winnicott – è come il riposare…

È uno stato a sé stante che lascia spazio alla comunicazione per ricomparire poi naturalmente (Buzzati, Salvo, 1998).

L’apertura ai sogni fu una discesa agli Inferi. Incontrammo il profondo, l’anima, la morte.

Pensavo a Bollas, quando dice che le donne sono gli orologi della vita. Il corpo femminile è come un orologio.

Le bambine sentono dire che a un certo momento avranno le mestruazioni, e così è. Sanno anche che, se restano incinte, ci saranno varie fasi della gravidanza e ci sarà un momento finale che In un certo senso dà loro un legame inconscio con la morte (Bollas, 2006).

Incontrammo l‘amore, la sessualità, la procreazione, la nascita e la morte, i grandi temi esistenziali.

Allora ebbi bisogno di una guida, o forse piuttosto di un compagno di strada.

Mi accompagnò Hillman con il suo libro Il sogno e il mondo infero (1979). Scelsi Hillman per il suo particolare atteggiamento nei confronti dei sogni.

Per lavorare con ciò che è sconosciuto, è essenziale, dice Hillman, che l‘atteggiamento sia di colui che non sa: un atteggiamento che lascia al fenomeno stesso la possibilità di parlare, una attenzione verso quello che effettivamente c’è, un aderire alle immagini.

Dobbiamo – continua Hillman – aggrapparci a ogni sogno a mani nude, aprendoci con coraggio la strada, immagine dopo immagine, aderendo unicamente al sogno, “dimenticando” o sfumando l‘anamnesi nel senso di storia clinica del soggetto, la consueta raccolta dei dati, il contesto storico delle esperienze personali.

Niente di tutto ciò è più importante del sogno, e neppure aiuta a meglio capirlo.

Il fenomeno da preservare è il sogno, addirittura da preservare dai legami che esso ha con il mondo diurno, che distorcono le immagini facendole confluire in ricordi personali…

La nostra anamnesi è il sogno stesso, e noi impariamo a conoscere il paziente attraverso i suoi sogni, dal di sotto, per cosi dire, come una discesa in uno spazio ignoto.

Senza entrare nello specifico pensiero di Hillman, sicuramente questo è un buon modo di lavorare con i sogni dei bambini restando vicini alle loro immagini e preservandone assolutamente l’integrità.

Così è accaduto tra Hope e la sua terapeuta.

A voler ripercorrere le fasi del nostro incontro, gli squiggle, le storie, i sussurri sono stati una sorta di prologo.

Seguendo la linea proposta da Gisele Pierra, un bambino che non parla, evita di entrare nel “movimento”, ha paura attraverso la parola di disperdere se stesso. In quest’ottica, il gioco degli squiggle diventa una materializzazione del “corpo sonoro”.

L’uso della voce è un passaggio ancora successivo, l’unico che rende possibile l’appartenenza a un gruppo, in questo caso quello delle donne giovani, che è forse anche quello che Hope temeva più di tutto.

A questo punto Hope era giunta ad affacciarsi su uno spazio buio, pauroso e ineludibile, una dimensione sconosciuta, in cui ogni dettaglio possedeva un suo mistero.

E, al di sotto di tutto, nascosto, appena udibile ma sotterraneamente tormentoso, vagava il fantasma dell’amore, appena presagito, inattinto.

La verità, vi prego, sull’amore, implorava Auden.

Che cos’è l’amore, al di là delle favole consolatorie?

Furono tre grandi sogni, frammenti di un discorso sulla vita e le sue necessità, narrati a intervalli, ma uno “già sognato tante volte da piccola”, che Hope chiamò rispettivamente della prostituta ladra di bambini, della ragazza prostituta, della città sconosciuta.

Furono incontri ravvicinati e spietati con la durezza del vivere, la costrizione delle scelte, lo sconcerto, l’angoscia di essere, lei piccola donna, rapita, portata via, violata dalle cose del mondo.

Hope si agitò e pianse raccontando incubi con gente di malaffare, vecchi libidinosi, case labirinto.

Trovò le parole per veicolare immagini turbate: la femmina crudele, la faccia tirata, la coda di capelli sporchi, il giubbotto buttato per terra.

Parole, quelle, senza piacere e senza gioia, parole necessitate e non amate, come per Agota Kristof, la scrittrice che avrei voluto conoscere bambina.

Hope e Agota usano un linguaggio stringato, elementare.

Agota perché non ama la lingua in cui scrive, Hope perché pensa e dice parole dell’altro mondo, quello dei grandi di cui le arrivano – attraverso televisione e racconti di coetanei – notizie sommamente inquietanti.

Kristof scrive in francese unicamente per essere letta, perché la sua lingua madre non è comprensibile nel luogo in cui vive. È tale il bisogno di “dire” che sceglie l’unico veicolo possibile, pur rinnegandolo.

Del resto, sappiamo anche che il mondo percepito in una lingua straniera è connesso alla mancanza di sentimenti, all’incapacità di sentire, volere, pensare.

All’ombra.

Scriveva Pessoa nel Libro dell’inquietudine:

In questi periodi dell’ombra sono incapace di pensare, di sentire, di volere. Non so scrivere altro che numeri e linee. Non provo sentimenti, e l’eventuale morte di una persona amata mi darebbe l’impressione di essere avvenuta in una lingua straniera (Pessoa, 1982).

«La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua» ribadisce Kristof.

Agota conosce la disperazione che annienta la vita. Adesso non scrive più.

È rientrata nel silenzio. Il suo ultimo testo, pubblicato nel 2005 da Casagrande, a Bellinzona, proviene dal fondo Agota Kristof depositato negli Archivi letterari svizzeri a Berna.

Questi, dice, sono gli anni banali. Gli anni in cui non succede nulla e nulla mi interessa.

Sono stanca di riflettere. Scrivo un passaggio e poi lo ricomincio da capo accorgendomi di averlo fatto uguale, sempre lo stesso (Kristof, 2005).

Come Philip Roth ne Lo scrittore fantasma.

Io prendo le frasi e le giro. Questa è la mia vita. Scrivo una frase e la giro. Poi la guardo e la giro di nuovo (Roth, 2002).

Così Faceva anche Hope nelle sue prime esternazioni. Girava e rigira le parole e le frasi, un poco ?sse, sempre quelle, come affaticata.

Non accadde più dopo i tre grandi sogni.

Di immagine in immagine uscimmo dal tunnel usando nuove parole, parole pregnanti, ricche di futuro.

Abbiamo sostato in calmi discorsi amorosi, favoriti anche da molto interessanti e concrete e talvolta anche imprevedibilmente buffe riflessioni dovute agli stimoli ricavati dalle lezioni di educazione sessuale che si tenevano a scuola, e alle citazioni di esilaranti dialoghi con compagnuzzi non troppo predisposti alla filosofia morale.

Furono momenti esplorativi sull’intimità, sulle possibili emozioni, furono dialoghi sull’amore, sulla complessità e sulla inesplicabilità di alcuni modi dell’amore, in cui ci fu dato di stemperare la paura, e la dolcezza e l’intelligenza e l’indipendenza di Hope trovarono una giusta espressione.

Hope anche deliziosamente cantò le canzoni e danzò le danze che via via apprendeva per i vari spettacoli della scuola e dell’oratorio.

Winnicottianamente giocò la sua terapia, divertendosi veramente.

Se è vero che la relazione analitica è, come diceva Freud, una conversazione speciale (e qui faccio riferimento al recentissimo lavoro di Franco Borgogno, The Vancouver Interview, 2007), dobbiamo ammettere che non sono solamente le parole, cioè le transazioni verbali a darle sostanza, ma anche, e talvolta maggiormente – tanto più con i bambini – le transazioni affettive offerte dalla nostra presenza fisica reale. Ci sono anche i corpi nella stanza di analisi, e ci sono anche i movimenti dei corpi, quelli volontari e quelli involontari.

Ci sono quelli che Winnicott definiva “i gesti”. Borgogno cita a questo proposito la lettera di Winnicott a Melanie Klein del 17 novembre 1952.

Gesti di riconoscimento, di conferma, di convalida psichica che testimoniano che “tu sei esistente per un altro”.

Potremmo citare Berne:

Salutare correttamente significa vedere l’altra persona, diventarne coscienti, esistere per lei ed essere pronti al suo esistere per noi, sorridere al nostro interlocutore con il sorriso degli abitanti delle isole Figi, “che inizia lentamente, illumina tutto il viso, e vi rimane abbastanza a lungo da essere riconosciuto chiaramente e da dimostrare di essere stati chiaramente riconosciuti, poi si attenua con misteriosa lentezza e  svanisce” (Berne, 1972).

Direi che Hope salutava così, inizialmente, con un sorriso che sarebbe piaciuto a Berne e con in più l‘aggiunta dell’eloquenza delle lacrime preziose come perle.

Di certo l’atmosfera della stanza fu sempre intensissima sia quando Hope sostava nel mondo della nursery tra silenziose lacrime e misteriosi sospiri, sia quando armonizzava con la terapeuta le linee degli squiggles, sia quando passò alle parole, quelle dure dei sogni aspri e quelle morbide destinate al futuro, sia quando cantò le canzoni più belle, sia quando danzò alla Isadora Duncan liberandosi di scarponcini e maglioni.

Se la relazione analitica è una forma di educazione alla vita e al vivere (Borgogno, 2007), e un apprendimento dall’esperienza delle emozioni e delle relazioni, Hope vi ha sperimentato, sembra, l’attesa e la speranza, per tornare al libro di Borgna da cui sono partita.

E forse anche la gioia.

Ho parlato di lacrime straordinarie, preziose come perle.

È stato inevitabile il riferimento a Hermann Hesse e, di conseguenza, la rilettura del suo Gioco delle perle di vetro.

Sufficiente per trovare una frase da dedicare a Hope:

Cerca la musica dentro di te, ma non prenderlo come un dovere, è soltanto un gioco.

E se ti ci addormenti non importa (Hesse, 1978).

E, aggiungo, se taci, posso stare accanto a te in silenzio in attesa dell‘arcobaleno.

È vero che il silenzio praticato dai bambini disturba e destabilizza, come una lingua straniera quando ci troviamo all’improvviso in un luogo sconosciuto.

Non è previsto infatti che un bambino resti a lungo silenzioso.

In realtà, il silenzio è forse un’altra lingua, non un’assenza di lingua.

Nel nostro affanno di capire, spiegare, interpretare i bambini, nel nostro zelo psicopedagogico, ci dimentichiamo che anche ai bambini possiamo concedere i periodi dell’ombra.

Vieni a me, siediti, ti racconterò i miei dolori,

ci scambieremo segreti, tu mi mostrerai la tua bellezza

e il modo che hai di guardare

e io ti offrirò il mio silenzio

e l’abitudine ad ascoltare

(Edith Södergran, 1916).

BIBLIOGRAFIA

 

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