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ARTICOLO Dolores Munari Poda: Il gioco nella terapia con i bambini
di Dolores Munari Poda

L’Associazione I.T.A.C.A riporta qui l’articolo di Dolores Munari Poda (2012) “Il gioco nella terapia con i bambini”, pubblicato nel quaderno Incontrare il Bambino Giocando. Atti delle Giornate di Studio di Lavarone 26-28 Agosto 2011 (pag 7-15).

Il gioco nella terapia con i bambini: dal gioco al giocare

Dolores Munari Poda

In apertura dei lavori del Quarto Seminario di studio in Lavarone “Incontrare il bambino giocando”, il dottor Maurizio Martucci presentò ai colleghi partecipanti la riproduzione dei “giocattoli” o “giochi” che Melanie Klein utilizzava nelle sue analisi con i bambini.

Semplici oggetti, di dimensioni molto piccole, carichi per noi di infinite valenze evocative, a partire dai quali è nata l’idea di queste brevi note sul gioco in terapia infantile, immaginate esclusivamente come sottile filo rosso per ricordarci della nostra storia e delle persone che l’hanno costruita.

 

Sempre, quando ripensiamo alla “partenza” del nostro lavoro, ci soccorre il bel libro di Maria Teresa Aliprandi e Anna Maria Pati L’alba della psicoanalisi infantile (1999), che costituisce una insostituibile guida dei primi tempi e delle prime esperienze d’analisi con i bambini. Le strade di chi lavora con i ragazzini si intrecciano e si incontrano spesso nei temi comuni.

Ricordiamo nel settembre 1920 il VI Congresso internazionale di psicoanalisi dell’Aja, dove erano presenti Hermine Hug-Hellmuth, Melanie Klein, Anna Freud, Eugenie Sokolnicka, Sandor Ferenczy, terapeuti veramente “internazionali”, molto coinvolti nel progettare, discutere e mettere in atto una terapia per i piccoli.

Ciascuno di questi studiosi della vita interiore dei bambini aveva pensieri, riferimenti culturali propri, esperienze personali e professionali diverse. Noi diremmo che ciascuno in definitiva rispondeva alla sua storia, alle proprie conoscenze teoriche, alla sua idea dell’infanzia, alla sua visione del mondo, in altre parole, al proprio copione.

“Ma – anche oggi – il bambino che studiamo, che ascoltiamo, con cui parliamo o cui diamo voce sarà sempre un’immagine di bambino, frutto dei nostri sogni, delle nostre conoscenze, della nostra storia, e di quanto la sua storia e la sua presenza evocano in noi” (Aliprandi e Pati, 1999).

Quasi cento anni ci separano dai “pionieri” e, tuttavia, l’incontro con il bambino ha sempre un suo aspetto nuovo e radicale. Ancora ci interroghiamo sulle nostre capacità, sulle nostre competenze, sui confini complessi tra analisi ed educazione, sempre il concetto di “prendersi cura” affonda nei problemi familiari, ambientali, ineludibili, soprattutto quando si tratta di bambini.

Hermine von Hug-Hellmuth parlava di “cura educativa”, non una forma di educazione, ma scienza e conoscenza che, nel rapporto con il bambino, devono necessariamente assumere per l’asimmetria relazionale evidente, una connotazione “educativa” e una visione “familiare” (Munari Poda, 2004).

Del resto, Maria Teresa Romanini nelle sue riflessioni sottolinea come “il lavoro analitico transazionale con i bambini si inserisca in una paritari età di rapporto pur nel rispetto della differenza di Io reale e quindi è nella realtà un particolare reparenting in cui l’analista si presenta volutamente come nuova figura genitoriale, libera da problematiche attuali e interessata al paziente da tutti e tre i propri stati dell’Io, anche se le transazioni sociali dell’analista sono di preferenza da A e da B. Il bambino, a sua volta, è portato dalla sua stessa età e dal rapporto di accettazione che viene sperimentando ad affidarsi e a introiettare i comportamenti, pensieri, sentimenti dell’analista (…).

L’analista partecipa ai giochi del bambino e anzi approfitta di essi per interrogare il bambino e rispondere, sia pure attraverso il simbolo del gioco, alle sue perplessità e ai suoi quesiti vitali.Talora, come si sa, l’analista agisce insegnando nozioni scolastiche, talora giocando a carponi, talora spara con la pistoletta o disegna scarabocchi a turno col suo piccolo cliente. L’analista decodifica i messaggi contenuti nei disegni e nelle azioni di gioco e interviene proponendo con le proprie mosse ludiche domande, specificazioni, confronti e così via, proprio come avviene all’interno dei colloqui AT con gli adulti. Il gioco infatti è per il bambino l’espressione di ridecisioni e la riprogettazione di sé e del proprio futuro; ovvero permette di suddividere e gestire nel rapporto gestaltico (come fa l’adulto nella tecnica delle sedie) per mezzo dei diversi personaggi del disegno e del vassoio di sabbia o ancora dello scenotest (o con i peluches o con altro che trova a sua disposizione) le parti di sé coinvolte nel conflitto interiore che lo blocca” (Romanini, 1999).

Gli analisti transazionali hanno in qualche modo riassunto la complessità dei rapporti tra bambino, caregivers e ambiente specificando problematiche, richieste, contatti e accordi su obiettivi, contenuti, tempi, elaborando il cosiddetto Multicontratto in terapia infantile, strumento contrattuale impostato su una filosofia di collaborazione e di rispetto reciproco che noi definiamo “Okness”.

Anche nell’“ora con il bambino”- pur nella necessaria assunzione di variabili, è possibile giocare un gioco concordato e condiviso (Sichem, 1991; Capoferri, 2005; Munari Poda 2012).

Al di là degli sforzi di chiarezza e di rispetto, sempre, comunque, il lavoro con il bambino è connotato da infinite ombre e altrettanti limiti, dove appare fondante la lettura di A. Ferro relativa alla insaturità del gioco, alla presenza mentale del terapeuta e al suo accoglimento di stati mentali ed emotivi che consente le trasformazioni più profonde (Ferro, 1992).

Nel tempo abbiamo acquisito nel nostro lavoro aspetti significativi.

Ciò che abbiamo appreso sulle prime vicende emozionali che si compiono tra madre e neonato è stato utile per rivedere la nostra comprensione del rapporto analitico: Winnicott e Bion, soprattutto, ci hanno insegnato a tornare al bambino, con maggior fiducia e insieme con maggior rigore. Con il loro esempio, abbiamo potuto riconoscere una confusione, presente nei nostri pionieri, ma anche sempre in chi inizia a lavorare psicoanaliticamente coi bambini, e in ognuno di noi ogni volta che si scontra con la propria insofferenza per i buchi neri della propria storia: la confusione tra la conoscenza del bambino reale e la comprensione della realtà del bambino” (Aliprandi e Pati, 1999).

Come possiamo arrivare vicino al bambino e alle sue difficoltà?

Uno degli strumenti è, appunto, il gioco e ad esso fanno, in qualche misura, riferimento tutti i terapeuti dei bambini.

Tornando alle origini, Manuela Trinci ci ricorda come il gioco sia stato inserito a pieno titolo nella clinica da Hermine von Hug-Hellmuth, che lo riteneva espressione delle aspirazioni, dei desideri segreti, delle esperienze, delle fantasie, “sebbene nel trattamento ‘curativo ed educativo’ i giochi rappresentassero solo uno dei molteplici mezzi che l’analista aveva a disposizione per “rompere il ghiaccio” e stabilire un “rapporto”. Il gioco era in tal modo il risultato di una decisione dell’analista, presa in maniera arbitraria e come risposta alle difficoltà sollevate dai bambini nel sostenere le “regole” di un vero e proprio trattamento” (Trinci, 1993).

Hug-Hellmuth aveva una modalità di partecipazione “attiva”, definiva il tema, i personaggi, lo svolgimento e assumeva spesso la direzione dell’evento.

Questo atteggiamento non era condiviso da tutti i colleghi, sicuramente non da Melanie Klein, che affidava al gioco un valore fondante e lo considerava luogo in cui i bambini riproducono simbolicamente fantasie, fantasmi, desideri, esperienze vissute, spazio per “mettere in scena” i pensieri.

Così:

“ ‘Il re aveva delle scarpe così lunghe che arrivavano da qui sino all’America, uno ci poteva entrare dentro e c’era moltissimo posto; ci si mettevano a dormire la notte i bambini appena nati’. Dopo averle raccontato questo sogno, Fritz, un piccolo bambino di cinque anni, dirà a Melanie Klein: ‘Adesso mi metto a giocare quello che ti ho raccontato’. Una frase, questa, che Fritz, con poche varianti, ripeterà spesso accomunando l’atto del giocare al sognare, come se per lui il sogno fosse stato il testo da rappresentare poi nel teatro del gioco.

Questa associazione espressa dal bambino rafforzò in Melanie Klein, allora agli inizi del suo lavoro (1921), l’idea che le “fantasie inconsce” che abitano la mente del bambino potessero esprimersi nelle ‘fantasie ludiche’, laddove quelle degli adulti si servono del sogno” (Trinci, 1993).

Nel pensiero di Melanie Klein il gioco ha da essere organizzato e giocato dal bambino, senza interventi o suggerimenti o partecipazione esterna, mentre compito dello psicoanalista è quello di comprenderlo e di interpretarlo. La novità della Klein, ricorda Ferro, è di guardare al bambino che gioca esclusivamente dentro una situazione di analisi (Ferro, 1992).

Cito ancora una volta l’ottimo lavoro di Manuela Trinci per definire la tecnica di gioco ideata da Melanie Klein.

Sintetizzando, la tecnica kleiniana si basa su questi presupposti:

  • Che l’attività del gioco sia una forma di esteriorizzazione, nel setting psicoanalitico, di preoccupazioni interne;
  • Che le angosce senza parole dei bambini debbano essere interpretate con l’intento di mettere in luce l’angoscia profonda, inconscia;
  • Che il gioco infantile sia, in quanto scenario onirico, l’equivalente delle associazioni libere dell’adulto.

Anna Freud riteneva, invece, che il gioco fosse determinato da fatti e cose della vita quotidiana. Considerava la tecnica elaborata da Klein una modalità significativa per l’osservazione dei bambini, ma ne disapprovava l’accostamento alle associazione dell’adulto.

Pensava che il gioco consentisse di individuare le diverse reazioni del bambino, l’intensità dei suoi impulsi aggressivi, il suo atteggiamento nei riguardi delle cose e delle persone rappresentate dai suoi giocattoli. Spesso utilizzava il gioco per coinvolgere il bambino nella terapia, considerandolo essenziale per lo sviluppo dell’alleanza terapeutica.

Forse una delle migliori definizioni del gioco in terapia appartiene a Sophie Morgenstern nella relazione alla V Conferenza degli psicoanalisti di lingua francese su La psicoanalisi infantile e il suo ruolo nell’igiene mentale del 1930, che la vede allineata alla posizione di Anna Freud e di Mary Chadwick. “Il gioco – riferisce Sophie Morgenstern – è il mezzo magistrale per entrare nel mistero della nevrosi infantile. Il gioco consente diagnosi, aiuta a intuire un carattere, porta a formulare una prognosi. Vi si può osservare tutta la vita affettiva.

La scelta del gioco da parte del bambino e il modo in cui vi si coinvolge offrono preziose informazioni sul suo inconscio. Il bambino vi esprime i propri conflitti, vi cerca un rimedio alle proprie delusioni e vi regola i propri conti con l’ambiente. Vi realizza anche simbolicamente i propri desideri. Può crearsi un altro mondo in cui giocare dei ruoli che soddisfano i suoi bisogni affettivi” (Morgenstern, S. in Geissman & Geissman, 1994).

Credo che questa sia, in sintesi, una visione del gioco che può venire, in qualche misura condivisa, da molti terapeuti dei bambini, ma si deve incontrare Winnicott per entrare in una dimensione assolutamente nuova, straordinaria e geniale.

La psicoanalisi infantile, da qualsiasi scuola provenga, è costruita intorno al gioco dei bambini. (…) Naturalmente, uno pensa al lavoro di Melanie Klein (1932), ma vorrei dire che, per quanto riguarda il suo interesse al gioco, Melanie Klein si occupò quasi interamente di come usare il gioco. Il terapeuta cerca di capire la comunicazione del bambino, e sa che il bambino non possiede di solito quella padronanza di linguaggio che può far intendere le infinite sottigliezze che si possono trovare nel gioco, sapendo cercare.

Questa non è una critica a Melanie Klein, o ad altri che hanno descritto l’uso del gioco infantile nella psicoanalisi dei bambini. È semplicemente un commento sulla possibilità che, nell’insieme della teoria della personalità, l’analista sia stato sempre troppo occupato a utilizzare il contenuto del gioco per poter osservare il bambino che gioca, e scrivere sul gioco come una cosa a sé. È ovvio che sto facendo una distinzione importante tra i significati del sostantivo ‘gioco’ e quelli del verbo ‘giocare’ “ (Winnicott, 1974).

Arriviamo al ‘giocare’, cioè al vivere creativamente nella stanza d’analisi, “alla sorgente di vita che è il vivere con immaginazione, conferendo ad ogni cosa esistente il contributo del proprio punto di vista” (Gaddini, R. (1974). Prefazione a Winnicott D. W. Gioco e realtà).

Ricordo un bambino di otto anni, citato da Ferro “che aveva inventato un altro mondo (‘il mondo dei punti di vista’) dove c’erano le fantasie e le emozioni che per lui era ancora intollerabile vivere da vicino, nel suo mondo” (Ferro, 1992).

Per il pensiero di Winnicott rimando al già citato Gioco e realtà e a Piggle (Piggle, una bambina), miniere di riflessioni meravigliosamente vicine al mondo dei bambini.

Vorrei citare ancora la visione terapeutica di V. Axline (1947), che sostiene la terapia di gioco non direttiva, un approccio basato sulle teorie di Rogers che ebbe grande fioritura negli anni Quaranta e Cinquanta. In questo stile terapeutico, non troppo lontano dalle modalità analitico transazionali, il bambino usa il gioco come mezzo naturale per l’espressione di sé e per “agire” i sentimenti.

Gli otto principi della terapia di gioco non direttiva abbracciata da Axline sottolineano che è l’atmosfera creata da un terapeuta non giudicante e permissivo, e non le tecniche terapeutiche in sé, a promuovere il cambiamento nel bambino. Secondo questi principi i terapeuti non direttivi devono:

  1. sviluppare una relazione positiva, amichevole con il paziente, in cui il rapporto viene stabilito il più presto possibile;
  2. accettare il bambino per ciò che è;
  3. stabilire un feeling di permissività, affinché il bambino possa esprimere liberamente i suoi sentimenti;
  4. attribuire rilevanza ai sentimenti espressi dal bambino e rifletterglieli, in modo che egli possa raggiungere l’insight;
  5. rispettare la capacità del paziente di risolvere i problemi quando ciò gli viene permesso. Il bambino è responsabile delle proprie decisioni e dell’attuazione dei cambiamenti;
  6. non dirigere il bambino in alcun modo. È il bambino che guida: il terapeuta lo segue;
  7. riconoscere che la terapia è un processo graduale, e non attuare alcun tentativo di affrettarlo;
  8. stabilire solo quelle limitazioni necessarie per “ancorare la terapia al mondo reale” in modo che il bambino sia cosciente della propria responsabilità nella relazione (Axline, 1947; Knell, 1998).

Mi pare bello chiudere queste note sintetiche con un omaggio a Gudrun Jecht-Hennig, che ha portato a Lavarone un lavoro molto apprezzato su gioco e Analisi Transazionale in cui considera anche l’aspetto dell’attaccamento.

Il gioco che le dedico è giocato dalla bambina Annie di anni sette e dalla sua terapeuta, in quindicesima seduta. Si chiama Giochiamo alla nanna.

Scenario: lo studio verso sera. Annie avvicina le poltrone e accende la luce bassa. L’atmosfera è calda e intima.

Annie ha cantato, recitato, corso e schiamazzato come le accade sempre quando arriva in terapia dopo la scuola. Siamo in conclusione di seduta.

Ora si fa buio e “dobbiamo mettere a letto i bambini”.

Annie: “Ti ricordi quando ero incinta e andavo a partorire con la valigia?”.

Ter. “Certo, è stato tanto tempo fa.

(Annie rievoca un gioco antico. Lei preparava la valigia per andare a

partorire. “Torno subito”, diceva piuttosto brusca ai suoi bambini, e non li affidava a nessuno. “Tanto, torno tra poco”).

Era il mese di dicembre 2010, ora siamo al 20 aprile 2011. Molte cose sono cambiate.

Annie avvicina le poltrone, ci mette tutti i bambolotti e i peluches di compagnia, rimbocca copertine, sussurra rassicurazioni ai suoi bimbi, canticchia ninne nanne, racconta qua e là piccole storie.

I bambini sono tanti, dopo tutti quei parti autunnali con la valigia.

Annie li affida alla tata, detta Tatina, che è la terapeuta.

Li presenta alla tata uno per uno, con i loro nomi. Poi dice ai bambini di sognare tranquilli.

Alla tata chiede di scrivere sull’agenda le cose da fare:

I bambini hanno chiamato te, Tatina, perché sei la tata preferita. Domani mattina ti racconteranno i sogni.

Tatina, domani dagli il latte con i biscotti, e alla sera anche la camomilla, così me ne posso andare a lavorare tranquilla. Prima di metterli a nanna, bisogna lavarli, quelli grandi si lavano da soli.

Cambia scenario.

Adesso, Tatina, tu eri una signora e avevi fatto anche tu un bambino piccolo di tre giorni, appena nato. Lo dovevi curare bene. Ti dico io cosa fare.”

A questo punto, suona il campanello, arriva la mamma, è ora di chiudere l’incontro.

Annie dice: “Beh, non importa, andiamo avanti la prossima volta. Intanto il tuo bambino ‘ti’ cresce.

Cura dei bambini, cura dei sogni, cura del cibo, cura del sonno, rispetto delle preferenze affettive, permesso di diventare grande: i bambini possono “giocare” in terapia anche nuove conquiste d’amore.

Bibliografia

Aliprandi, M., Pati, A. M. (1999). L’alba della psicoanalisi infantile. Milano: Feltrinelli.

Capoferri,C. (2005). “Io ero l’albero – Tu il cavallo”. In D. Munari Poda, (Ed.), La stanza dei bambini. Quaderni di psicologia, 44, 39-52

Ferro, A. (1992). La tecnica della psicoanalisi infantile. Milano: Feltrinelli.

Geissamn, C., Geissman, P. (1994). Storia della psicoanalisi infantile. Roma: Borla.

Jecht-Hennig, G. (2012). Gioco infantile e Analisi Transazionale. In R. Pesenti (Ed), Incontrare il bambino giocando. Atti delle giornate di studio di Lavarone 26-28 agosto 2011, 145-151.

Knell Susan, M. (1998). Il gioco in psicoterapia. Nuove applicazioni cliniche. Milano: McGraw-Hill.

Munari Poda, D. (2004). Every child is a group. TAJ, 34, .

Munari Poda, D. (2012). Quando il bambino era bambino. In R. Pesenti (Ed), Incontrare il bambino giocando. Atti delle giornate di studio di Lavarone 26-28 agosto 2011, 17-45.

Sichem, V. (1991). Le multicontract en therapie d’enfants. Actualitès en Analyse Transactionelle, 60, 147-151.

Romani, M. T. (1999). Costruirsi persona. Milano: La vita felice.

Winnicott, D. W. (1974). Gioco e realtà. Roma: Armando.

Winnicott, D. W. (1982). Piggle, una bambina. Torino: Bollati Boringhieri.

Trinci, M. (1993). Il bambino che gioca. Torino: Bollati Boringhieri.

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