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ARTICOLO Dolores Munari Poda: Fanita English: Parcours dei vie
di Dolores Munari Poda

L’Associazione I.T.A.C.A riporta qui l’articolo di Dolores Munari Poda (2013) “Fanita English: parcours de vie”, pubblicato nel Quaderno delle Giornate di studio di Lavarone 2012 (pag 26-37).

FANITA ENGLISH: PARCOURS DE VIE

Dolores Munari Poda

Avevo mille vite e ne ho preso una sola

Cees Nooteboom

Riassunto

La voce di Fanita English, ripresa dal libro scritto con Isabelle Crespelle sulla sua vita e il suo percorso nell’Analisi Transazionale, offre visioni particolari di un viaggio che si snoda in tempi, modi, luoghi diversi.

Abstract

The opinion of Fanita English as newly examined by the book written together with Isabelle Crespelle on her life, on her career in Transactional Analysis, gives an interesting insight about a “travel” that takes place in different times and places.

Sempre, quando si riflette sulla complessità delle esperienze esistenziali di Fanita, colpisce la forza dinamica che le attraversa e sostiene: un senso di vitalità originato sicuramente dalla pulsione di sopravvivenza cui si accompagna, da subito, una variegata capacità creativa, in grado di dare agli eventi e alla loro rilettura una connotazione speciale, un alfabeto segreto.

Fanita è una donna che ha vissuto, pensato e viaggiato, raramente per diporto. Senz’altro, invece, ha riflettuto molto sullo spirito dei luoghi, sugli usi e sui costumi, sulle istanze politiche e sociali dei paesi frequentati e ha molto compreso delle persone e degli ambienti in cui l’hanno portata prima il destino, i casi della vita, poi la sua libera scelta.

«Viaggiare è qualcosa che bisogna imparare, è un’interazione continua con gli altri, mentre allo stesso tempo si è soli», ci ricorda Cees Nooteboom (2008).

Fanita è cittadina del mondo, anche se non è mai tornata nei dolci luoghi della prima infanzia abitati nella memoria dall’amatissimo nonno Gottesmann con la sorridente e amabile zia Dida: la sua stagione dorata di bambina. In seguito, nell’atlante personale sono comparsi nomi come Istanbul, Parigi, Nizza, Bordeaux, NewYork, Chicago, Carmel, Filadelfia, San Francisco, la California…

«Alcuni nomi di località hanno qualcosa che accende la voglia di viaggiare. Il suono del nome stesso, le leggende che gli sono nate intorno o un misto di entrambi. Alcuni nomi si sono trasformati in leggenda proprio perché l’armonia del loro suono è seducente» (Nooteboom, 2008).

Istanbul, il «Pera Palace» di Agatha Christie, Parigi, Carmel, San Francisco…

 

“Il suono ha fatto sì che rimanesse impressa l’idea del luogo. Chiunque sia occasionalmente affetto da febbre del viaggiatore conosce questo fenomeno: pronunci quelle parole misteriose a voce alta, quasi come una evocazione. […] Composizioni di suoni, brevissimi brani musicali, parole che potresti suonare con uno strumento” (Nooteboom, 2008).

Ma nessun luogo da nessuna parte, neppure il luogo dal nome più bello, allevia la nostalgia, cura lo struggimento.

“Forse questa è proprio la malinconia più profonda del viaggiatore, che la gioia del ritorno sia sempre mista a qualcosa che è più difficile da descrivere, che quello di cui hai avuto tanta nostalgia ha continuato a esistere anche senza di te, che per averlo veramente con te dovresti restare per sempre lì dove si trova. Ma allora dovresti diventare qualcuno che non puoi essere, quello che rimane a casa” (Nooteboom, 2008).

E un ebreo non può rimanere a casa quando si scatena la follia degli umani.

Fanita ha viaggiato molto, inizialmente per sfuggire alla deportazione e, poi, per lavorare: due necessità di sopravvivenza, corroborate sempre da una dimensione immaginativa e creativa. In tempi recenti ne ha fatto un internazionale inimitabile stile di vita: si è trasformata in “viaggiatore”, il che, però, non significa soltanto piacere di scoprire il mondo. «Il vero viaggiatore vive della sua lacerazione, della tensione tra il ritrovare e l’abbandonare, e al contempo quella lacerazione è l’essenza della sua vita, non è di casa in nessun luogo» (Nooteboom, 2008).

Anche se, forse, sogna una sua Itaca segreta.

È lei stessa a spiegare la sua formazione culturale, una sorta di Bildungsroman, nel libro scritto con la collaborazione di Isabelle Crespelle, amica e preziosa collega, la cui conoscenza risale al Congresso AT di Seefeld del 1977, mantenutasi negli anni attraverso seminari, convegni, presentazioni, corsi tenuti in Francia e altrove, frequentazioni amicali e familiari, legate anche alla persona di Alain Crespelle, compagno di Isabelle, personaggio di spicco della cultura francese, per molti anni responsabile di uno dei più importanti Centri culturali di Francia, l’Abbaye de Royaumont, e forte interprete delle più profonde istanze analitico transazionali. E proprio ad Alain, morto prematuramente nel 1999, Fanita dedica il libro S’épanouir tout au long de sa vie, che si apre con la sua introduzione dal titolo Mon parcours… (Il mio viaggio…), in cui si trovano, evocate dalla viva voce della protagonista, note salienti della sua esperienza professionale e familiare. La riportiamo quasi integralmente:

“Prima della seconda Guerra Mondiale ero studentessa di filosofia alla Sorbona e allieva dell’Istituto di Psicologia e Pedagogia fondato da Ribot e Binet. Contemporaneamente seguivo anche corsi all’Istituto di Psicoanalisi creato da Marie Bonaparte. La maggior parte degli insegnanti era formata da psicoanalisti tedeschi rifugiati in Francia dopo l’avvento del nazismo. Heinz Hartmann, ad esempio, parlava esclusivamente tedesco, cosa che mi consentì di essere una delle rare studentesse a trarre profitto dal suo insegnamento. Nel maggio 1940, essendo già in atto l’avanzata delle truppe tedesche verso Parigi, il professor Wallon ci riunì nel seminterrato della Sorbona, a quel punto in procinto di chiudere. Mi consegnò un certificato di laurea scritto a mano che possiedo tuttora.

Dieci anni dopo eccomi negli Stati Uniti, a Chicago, sposata, con due figli. Grazie agli studi di psicologia con specializzazione in terapia infantile, divento direttrice di un Istituto per bambini con disturbi emotivi. Nel 1956 m’iscrivo all’Istituto di Psicoanalisi: a quell’epoca venivano accettati esclusivamente gli psichiatri. Fanno un’eccezione per me in quanto, al pari di altri immigrati europei, ho alle spalle studi psicanalitici. Parallelamente seguo un’analisi didattica e lavoro per qualche anno con uno psichiatra, psicoanalista di bambini.

Nel 1961 inizio un’attività privata di psicoterapia analitica per adulti e, a poco a poco, scopro che la pratica terapeutica mi lascia insoddisfatta. Passo da un supervisore all’altro, di scuole diverse: rogersiani, “dinamici” del gruppo di Tavistock, psicoterapeuti di formazione esistenziale e altri […]. Malgrado tutti questi sforzi, trovo che il mio lavoro non vale più il tempo che gli dedico, né il prezzo che i clienti sono tenuti a pagare.

Eppure i miei pazienti non si lamentano, anzi le richieste di terapia crescono e i supervisori continuano a ripetermi che lavoro bene, sono solo troppo ansiosa e perfezionista.

Oggi sono convinta che avevo ragione d’essere insoddisfatta: in effetti alcuni dei miei clienti erano ben felici di pagare numerose sedute al fine di entrare in una relazione parassita con il terapeuta, senza peraltro fare alcun progresso. Nel 1964 uno dei miei colleghi psicoanalisti, Jack Tanzman, acquista il testo di Berne Analisi Transazionale e Psicoterapia e me ne fa dono, commentando con sarcasmo: «Questo libro rispecchia alcune delle tue visioni critiche rispetto alla psicoanalisi». Di fatto quel libro ha trasformato la mia vita personale e professionale. Quali elementi di questa teoria e del suo approccio pratico mi hanno illuminata al punto da portarmi a un cambiamento radicale?

In Analisi Transazionale e Psicoterapia, Berne mostrava come la struttura psichica di un individuo funzionasse sulla base degli stati dell’Io, ciascuno dei quali ha sue proprie manifestazioni fenomenologiche e comportamentali che possono evidenziarsi nel “qui e ora”.

Finalmente cominciavo a comprendere ciò che mi sconcertava. Potevo distinguere tra il Bambino e il Genitore di una persona che incontravo come Adulto, e usare il mio Adulto in modo appropriato senza dispendio di energia inutile, quando avvertivo che il mio Genitore perfezionista tendeva a rimproverare il mio Bambino, colpevole di non cogliere tutto quello che succedeva.

Prima d’allora non avevo alcun modo di riconoscere i cambiamenti degli stati dell’Io. Ora possedevo strumenti di comprensione, definizioni che in passato avevo acquisito incontrando bambini di diverse età per lavorare con il Bambino dei miei interlocutori e aiutarli a usare il loro Adulto, quando «conclusioni di sopravvivenza arcaiche» li mettevano in difficoltà nel presente. I concetti di “stati dell’Io” e di “transazioni” interne ed esterne restano i punti cardine della mia visione analitico transazionale.

Entusiasta di Analisi Transazionale e Psicoterapia, chiamo Eric Berne a San Francisco e lui mi propone di formare un gruppo di cinque persone. Ci avrebbe dedicato un pomeriggio per introdurci nell’Analisi Transazionale: costo cinquanta dollari più cena e pernottamento in un buon albergo.

In quella prima occasione d’incontro, Berne esibì un atteggiamento così sgradevole e provocatorio da farci rinunciare alla cena sociale prevista. Riconobbe la sua indelicatezza e mi congedò dicendo: «Non serbare rancore per l’AT». Quello stesso anno presi comunque la decisione di andarmi a formare a Carmel (California) presso l’Istituto che Berne aveva appena fondato con David Kupfer e Robert Goulding (insieme a Mary Edwards, poi diventata Mary Goulding). Laggiù, dove avevo contatti frequenti e informali con Eric Berne, ebbi modo di approfondire i concetti fondanti dell’Analisi Transazionale con David Kupfer, straordinario teorico e psicoterapeuta.

In quel periodo lessi A che gioco giochiamo, che era uscito da poco. Il primo libro di Berne mi aveva entusiasmata, questo mi deluse e non ne feci mistero con l’ autore. Fu l’inizio di confronti teorici che spesso ci trovarono in disaccordo. Per quanto lo ammirassi, le nostre discussioni avevano spesso toni accesi: ho la sensazione che proiettasse su di me la rabbia nei confronti degli psicoanalisti che non avevano riconosciuto il suo valore. Era necessaria una notevole dose di duttilità per comunicare con lui e non si può dire che i primi scambi siano stati soddisfacenti. Tuttavia, prendeva in considerazione i miei punti di vista ed è stato lui a guarirmi dalla fobia della scrittura.

Ecco come accadde: Berne usava chiedere a tutti i partecipanti un contributo scritto prima di condurre un atelier ai congressi di Analisi Transazionale. Poiché io non mi sentivo in grado di mettere per iscritto le mie idee, decisi che avrei comunque tenuto il mio workshop, senza scriverne le linee guida. Ovviamente, Berne scoprì che non avevo ottemperato alle sue disposizioni e s‘irritò molto. Io condussi il seminario mentre lui continuava a entrare e uscire dalla sala disturbando l’attenzione e la concentrazione dei partecipanti. A tavola si rifiutò di accennare all’accaduto e, più tardi, in piscina, si tuffava in acqua quando mi avvicinavo, volutamente ignorando la mia persona. Ero furiosa. Passò un anno. Un giorno nel mio studio presi dei fogli sottili (Berne soleva dire: «Non usate carta igienica») e scrissi l’articolo tutto d’un fiato. Glielo mandai aspettandomi che lo buttasse nel cestino. Invece Berne lo fece dattilografare su carta buona e corresse in rosso tutti i miei errori. Riscrissi l’articolo tenendo conto delle correzioni e nell’ottobre 1969 Berne lo pubblicò sul TAB (Transactional Analysis Bulletin). Vederlo stampato guarì la mia fobia.

Posso analizzare questa guarigione sotto tre aspetti:

  1. uno psicoanalista direbbe: «È una guarigione di transfert», dichiarando che probabilmente non ero davvero guarita poiché avevo agito all’interno di una relazione transferale;
  2. un analista transazionale direbbe che avevo ricevuto un Permesso; è vero che si trattò di un Permesso concreto, diventato poi punto fermo nel mio percorso verso l’autonomia;
  3. ecco come lo interpreto io, attraverso la teoria dei motivatori: quando soffrivo di fobia della scrittura, mi trovavo nella pulsione di sopravvivenza e Berne mi ha “accompagnata fuori” verso la spinta di creatività.

Eric diceva che rispettava le donne e affermava che una donna poteva essere un buon terapeuta quanto un uomo, ma il suo Genitore era molto misogino. Ci furono varie transazioni incrociate tra noi, dovute probabilmente al mio Genitore rigido o al suo Bambino capzioso, ma devo riconoscere che queste “dispute” stimolavano la nostra creatività e che durante gli ultimi anni della sua vita abbiamo saputo superarle grazie alla stima e al rispetto reciproco.

Ritornata a Chicago, ho modificato la mia pratica di psicoanalista e ho deciso di organizzare gruppi di Analisi Transazionale. All’inizio fu un notevole sacrificio economico, dal momento che l’Istituto di Psicoanalisi non intendeva più inviarmi nuovi pazienti.

Nel frattempo alcune ragioni del mio disagio come psicoanalista mi si fecero sempre più chiare: non sapevo distinguere né i miei stati dell’Io interiori né quelli dei miei interlocutori e, quando intervenivo, provavo sensi di colpa perché infrangevo la regola della “benevola neutralità” psicoanalitica. L’incontro con concetti base dell’Analisi Transazionale ha reso il mio lavoro molto più libero e fluido. A poco a poco diedi corpo alle mie idee. Mi associai con tre colleghi per promuovere l’Analisi Transazionale, insegnarla e fare terapia. Partecipai ai Convegni internazionali annuali che Berne e Kupfer organizzavano in California. Sempre a Chicago, grazie al fatto che Fritz Perls veniva tutti i mesi, partecipai con altri colleghi alla creazione dell’Istituto di Gestalt. Nel 1970 mi trasferii a Filadelfia per seguire mio marito e fondai il mio Istituto che chiamai “Eastern Institute for TA and Gestalt”.

In quell’occasione Berne m’inviò una lettera di auguri e felicitazioni perché l’Analisi Transazionale era ancora sconosciuta in Pennsylvania, così come nella maggior parte degli altri Stati, a parte la California. Dal momento che l’anno precedente avevo superato la mia fobia della scrittura, preparai due articoli e una serie di note da presentargli per il Congresso che si sarebbe tenuto a luglio. Mi rallegrava la prospettiva di una collaborazione teorica con Berne. Purtroppo Berne venne a mancare appena prima di quel Congresso, seguito dopo poco da Kupfer.

Sono profondamente dispiaciuta all’idea che la maggior parte dei miei contributi all’Analisi Transazionale, alcuni dei quali in contrasto con la teoria berniana, siano stati pubblicati solo dopo la morte del fondatore. Berne mi ha “dato il permesso” di rimettere in discussione alcuni principi basilari dell’Analisi Transazionale, in particolare la teoria dei giochi e quella di copione che, nella loro forma originale, apparivano estremamente rigidi. Dopo tutto, non ha insistito lui stesso nel dire che la teoria deve costantemente essere sottoposta alla prova dell’esperienza clinica, nello spirito degli “abiti nuovi dell’ Imperatore”, cioè senza prendere per oro colato la parola dell’esperto, fosse anche Berne in persona? Pur restando fedele all’Analisi Transazionale, nel corso degli anni ho modificato alcuni dei costrutti teorici berniani integrandone altri, il cui impatto è tanto teorico quanto pratico” (2010).

Questa dettagliata ricostruzione del suo rapporto con Berne e con l’AT, fatta di luci e ombre, con riflessioni critiche e idee innovative, è un “viaggio” nella sua formazione e nel suo essere donna e terapeuta al contempo. Il viaggio è un termine caro a Fanita. La riporta alla mitologia greca, in particolare alla figura di Ulisse. Al mito di Ulisse dedica un contributo nel libro sul copione curato da Erskine (2010), illuminante circa il suo concetto di script.

Interessante sotto questo profilo è anche un suo articolo pubblicato nel 1995, “A Pair as Archetype for the Self: Address to Ulysses and Penelope”. L’articolo è strutturato sotto forma di lettera a Ulisse e Penelope, che Fanita legge in chiave analitico transazionale.

“Cari Ulisse e Penelope,

mi sono spesso identificata con voi. Con quale di voi due? vi chiederete. Entrambi! Omero vi descrive come una coppia fedele costretta a vivere separata per molti anni. Ecco perché rappresentate simbolicamente due aspetti diversi della mia identità.

Entrambi siete un simbolo di perseveranza: Ulisse nel processo di movimento e cambiamento, Penelope nella difesa dell’ordine e della fedeltà.

Tu, Ulisse, dopo i dieci lunghissimi anni della guerra di Troia, ne hai dovuti trascorrere altri dieci navigando per mari infidi, utilizzando ogni risorsa della tua mente per tornare a Itaca. E anche tu, Penelope, hai saputo usare ingegno e creatività per restare fedele a un marito lontano, tenendo a lungo a bada i pretendenti al regno.

Oltre a mostrare il reciproco attaccamento, la vostra storia illustra come gli umani possano in qualche modo rispondere ai “decreti” arbitrari degli dei facendo ricorso alla propria energia vitale e alla capacità di iniziativa personale per riplasmare le circostanze esterne.

Anche la mia vita, come quella di tutti, si è simbolicamente dipanata in un contesto deciso dal fato, visto che non ci è possibile scegliere dove, quando, in quale famiglia e in quale ambiente geografico, sociale, politico ed economico nascere.

La guerra fu il tempo drammatico che mi trovai ad affrontare da giovane donna, ma ebbi la possibilità di usare ogni mia risorsa per lasciare l’Europa in direzione America e non Auschwitz.

Sia che si sostenga che gli “dei” determinano il nostro destino, pur consentendoci di cercare vie e modi per superare le difficoltà, sia, come è il mio caso, che si dica che “la situazione geopolitica”, i miei geni, la mia educazione mi hanno permesso di approfittare di occasioni felici, tanto la vostra vicenda, cari Ulisse e Penelope, quanto la mia cultura occidentale concordano nel sottolineare che il concetto di determinismo non è assoluto: esistono opportunità e scelte anche in contesti in apparenza inamovibili. E queste scelte possono segnare la differenza tra soccombere nel processo di crescita o raggiungere traguardi da trasmettere alle generazioni future.

Ora, considerando lo svolgersi della mia esistenza, mi rendo conto che gli elementi distintivi delle vostre personalità, cari Ulisse e Penelope, corrispondono di fatto a una mia scissione.

T’incontrai, Ulisse, leggendo Tennyson e poi studiando Campbell. Eri l’archetipo dell’uomo che deve compiere nella vita un lungo viaggio. Ciascuno di noi, di fatto, parte da casa per un percorso eroico che ci porta da una sfida all’altra, da un compito all’altro al fine di trovare la nostra identità.

Vale per gli uomini come per le donne.

Considerati i drammatici eventi che mi hanno segnata, mi sono spesso identificata, Ulisse, con la tua forte personalità dalle mille sfaccettature e con il tuo lucido modo di affrontare le sfide.

Sin dall’infanzia mi sono mossa tra molte culture, imparando ad adattarmi a situazioni diverse. Spesso mi sono riferita alle figure delle zingare della mia fanciullezza, donne indipendenti, libere, autonome, intuitive, per denaro abili lettrici del futuro. Dopo che ebbi conosciuto Campbell, ho preso atto che l’immagine della zingara era una colorata rappresentazione al femminile del tuo archetipo, Ulisse, e tu, allora, diventasti la personificazione della mia identità.

Tu eri l’incontrastato eroe della tua storia, io potevo vedere me stessa come l’eroina della mia. Tu possedevi intuito, determinazione ed energia, ma hai sempre agito con profondo senso di responsabilità.

Sin dall’inizio mi sono resa conto che non eri solo un tipico eroe maschile. Pur essendo coraggioso, non avresti sentito il bisogno di dimostrarlo andando alla guerra contro Troia. Hai posto in atto uno stratagemma per evitare la spedizione, ma quando fu messa in pericolo la vita del tuo bambino, hai ceduto. L’esistenza di tuo figlio era la cosa più importante in assoluto, e questo coincide del tutto con i miei valori personali.

La tua decisione ti rende unico nel panorama dell’epoca. Molti eroi maschili non sono stati in grado di rinunciare alle loro ambizioni e vi hanno sacrificato ciò che avevano di più sacro. Penso ad Agamennone con Ifigenia, o anche a Isacco con Abramo.

Nell’Odissea sei descritto come astuto, ma anche saggio. Talvolta hai avuto bisogno dell’aiuto di Atena e il fatto che il tuo potere non fosse sempre sufficiente a risolvere i problemi ti ha reso più umano ai miei occhi.

Ho poi molto riflettuto sul tuo ruolo di moglie e di madre, Penelope. Come Ulisse, anche tu hai saputo inventare e portare avanti stratagemmi raffinati per non cadere preda dei Proci e salvare il regno a tuo figlio. Sei stata ammirevole e hai agito senza l’aiuto di Atena o di altre divinità. Ma a quale prezzo! Mentre l’esistenza di Ulisse si arricchiva di ogni imprevisto, tu conducevi la tua vita in modo assolutamente monotono e ripetitivo.

Per lungo tempo sono stata tentata di rifiutare il tuo modello. Tu eri descritta come attenta, prudente, schiva, casta. Anche tu, a tuo modo, eri un’immagine di coraggio, coraggio segreto, ma la tua figura, a seguito delle circostanze ripetitive in cui eri costretta a vivere, appariva piatta e amorfa. Poi ho compreso la ricchezza della tua indole meditativa e la tua arte di tessere e ritessere tenendo fede alla decisione iniziale.

Spesso in momenti impegnativi della mia vita di moglie e di madre, sovraccarica di responsabilità, ho avuto l’impressione di somigliare assai più al tuo destino che non a quello di Ulisse. Ho addirittura coniato un verbo dal tuo nome: peneloping, “penelopeggiare”. Mi sentivo “penelopeggiante” quando, per resistere, mi muovevo con modalità ripetitive, perfezioniste, ossessive, come era solita fare mia madre che in molti atteggiamenti ti somigliava, e come talvolta agiva, in alcuni tratti del suo lavoro poco soddisfacente e tollerato solo per senso del dovere, anche mio padre.

Ho attraversato momenti di grande solitudine e profonda rabbia negli anni dal 1940 al 1960, gli anni dell’infanzia e adolescenza dei miei figli e delle mie prime prove di autonomia professionale, necessarie per la sopravvivenza economica della famiglia, ma mal sopportate dalla società americana dell’epoca, male interpretate anche dai miei analisti e motivo, per me, di incongrui sensi di colpa.

Ho avuto bisogno di molto tempo per acquistare fiducia in me stessa come donna non solo “obbligata” ai riti della casa, orientata a comprendere e accompagnare le visioni del coniuge che, peraltro, ho a lungo anche economicamente sostenuto nelle sue improvvide avventure imprenditoriali.

È stato davvero difficile nell’America di quegli anni trovare la strada della mia indipendenza psicologica, pur garantendo allora, con fatica e dedizione, da vera riflessiva Penelope, la stabilità emotiva della famiglia.

Ora posso davvero riconoscere nel mio copione il valore della tua Presenza, Penelope, necessaria nel tessere e ritessere fedelmente la trama affettiva nelle stagioni della crescita dei figli, proprio come tu hai fatto con e per Telemaco in assenza del padre.

E sono in grado adesso di riprendere il potente tema di Ulisse, il tema del viaggio alla scoperta del mondo con il gusto dell’avventura e della meraviglia” (English, 1995).

Così Fanita nel suo “messaggio” a Ulisse e Penelope.

In una notissima sua rilettura del concetto di copione, English dice:

“I copioni contengono elementi genetici e schemi esistenziali connessi alle esperienze, alle fantasie e alle credenze passate, intrecciati tra di loro nella fabbricazione di un racconto mitologico personale provvisto di molte possibili varianti […]. Un copione ha valore in quanto è una struttura di supporto e di organizzazione. […] I copioni si svolgono e si evolvono gradualmente. È attraverso l’intrecciarsi di molti fili di schemi esistenziali che ogni individuo crea la qualità unica della propria vita” (1988).

Non esistono nella vita interpretazioni univoche, schemi prefissati, filosofie o religioni che consentano linee guida imprescindibili.

Questa donna straordinaria ha incontrato bufere e tempeste e dolori grandi, rare isole felici, ha cercato di non soccombere, ha vissuto in città aperte fatte d’aria e di acqua, di pietra e di legno, piene di storie e di memorie segrete, ha conosciuto città nuove senza storia, si è mossa sempre con intelligente curiosità, analizzando i diversi volti della vita. Ha studiato, ha appreso, ha collegato con lucido autonomo pensiero personale, quando questo non apparteneva ancora alla cultura transazionale, le nozioni offerte dai Maestri, compresa la rilettura di Berne, ha rivitalizzato le nostre antiche radici psicoanalitiche, ha presentato nei suoi articoli Piaget, Klein, Erikson, Freud, ci ha insegnato a riavvicinarci ai classici greci e all’amatissimo Shakespeare con gli strumenti dell’ Analisi Transazionale.

Cito in chiusura un pensiero di Cees Nooteboom, scrittore olandese che, come Fanita, non ama offrire risposte né schemi filosofici, ma lampi di grazia poetica e folgoranti visioni, per dirci che «solo l’inarginabile forza dell’immaginazione può aprirci gli occhi a quelle mille vite, a quelle possibilità inespresse che abitano in ognuno di noi» (Safranski, 2011).

Riferendosi alle sue durissime esperienze personali, guerre, distruzioni, tragedie familiari, Nooteboom scrive: «(Tutto ciò) mi ha dato la possibilità di disegnarmi da solo, viaggiando e pensando, una vita, e inoltre ha prodotto in me il fascino per il passato, […] per le memorie, […] per tutto ciò che si riassume nella parola “storia”» (Nooteboom, 2008).

(La traduzione di Mon parcours de vie è di Simona Munari).

Bibliografia

    English F. (1988), trad. it. Fin dove i copioni?, in Neopsiche, 15, 1991, pp. 4-14.

    English F., “A Pair as Archetype for the Self: Address to Ulysses and Penelope”, in Journal of Couples Therapy, vol. 5, n. 1/2, 1995, pp. 141-156.

    English F., “It Takes a Lifetime to Play out a Script”, in Erskine R. (ed), Life Scripts: a Transactional Analysis of Unconscious Relational Patterns, Karnac, London, 2010, pp. 217-238.

    English F., S’épanouir tout au long de sa vie (avec Crespelle I.), InterEditions-Dunod, Paris, 2010.

    Nooteboom C. (2008), trad. it. Avevo mille vite e ne ho preso una sola, Iperborea, Milano, 2011.

    Röhl S., Fanita English. Über ihr Leben und die Transaktionsanalyse, Iskopress, Salzhausen, 2004.

    Safranski R., Premessa a Avevo mille vite e ne ho preso una sola, Iperborea, Milano, 2011.

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