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ARTICOLO Stefano Morena: “La fantasia è un posto dove ci piove dentro”. Le immagini condivise nell’incontro terapeutico
di Stefano Morena

L’Associazione I.T.A.C.A riporta qui l’articolo di Stefano Morena (2013) “ ‘La fantasia è un posto dove ci piove dentro’. Le immagini condivise nell’incontro terapeutico”, pubblicato nel Quaderno delle Giornate di studio di Lavarone 2012 (pag 83-100).

“LA FANTASIA È UN POSTO DOVE CI PIOVE DENTRO”

LE IMMAGINI CONDIVISE NELL’INCONTRO TERAPEUTICO

Stefano Morena

Riassunto

La capacità di un bambino e del suo analista di inventare e ritrovare immagini durante il percorso terapeutico diviene occasione di crescita che facilita il lavoro clinico in tutte le sue fasi. Tale competenza nasce ed evolve grazie al «motivatore espressivo-creativo» illustrato da Fanita English nel 1992 e ripreso nel 2010. Ci accompagneranno in questo intervento alcune riflessioni e “fotogrammi” della vita di English, Berne, Klee, Chagall, Calvino.

 

Abstract

A child and his analyst’s ability to invent and find images during their therapeutic relationship, becomes an opportunity to grow up, which facilitates the clinic work in all its phases. This competence starts and evolves thanks to the “expressive-creative motivator” as described by Fanita English in 1992, and revisited in 2010. This speech will be accompanied by reflections and “photograms” by English, Berne, Klee, Chagall, Calvino.

 

Come guardare dentro un caleidoscopio

Ho introdotto questo mio contributo con la constatazione che Italo Calvino pone nell’introduzione alla quarta delle sue Lezioni americane, quella dedicata alla visibilità: «La fantasia è un posto dove ci piove dentro» (Calvino, 1993).

Mi piace l’idea di uno spazio mentale o esistenziale dove le immagini piovono o, aggiungo io, germogliano. È un’osservazione che attraversa molti campi dell’eccellenza umana come la pittura, la scultura, la letteratura, la musica e che accompagna anche il lavoro clinico di chi avvicina persone in difficoltà. Come terapeuti spesso ci interroghiamo sulle origini di un’immagine che prende corpo o, se vogliamo, abita la nostra mente che, come in filigrana, intravediamo ogni qualvolta siamo in relazione, pensiamo o lavoriamo con un bambino. Ne sono un esempio gli interrogativi circa il “da dove” e il “perché”, in un ben definito momento dell’analisi, un disegno nasce o un’immagine viene ricordata.

Prima di addentrarci nella nostra riflessione proponiamo al nostro lettore di leggere le righe che seguiranno lasciando che i frammenti di vita in esse narrate suscitino in lui sensazioni, rappresentazioni o figurazioni. Un po’ come ascoltarle con gli occhi e leggerle con le orecchie. Quasi un viaggio al confine tra realtà e fantasia.

Le parole di Fanita English, annotate da Dolores Munari Poda (1998), ci riportano a una sua memoria d’infanzia:

 

“Quando ero molto piccola scappavo dalle cure di mia madre e della zia per raggiungere il santuario, l’ufficio di mio nonno dall’altra parte della casa. Era presidente della Comunità ebraica locale e riceveva i genitori dei ragazzi che volevano emigrare negli Stati Uniti prima del servizio di leva, essendo i soldati ebrei notoriamente maltrattati nell’esercito. II soggiorno del nonno era sempre affollatissimo. La mia precoce esperienza di essere incondizionatamente accettata in quella stanza piena di estranei ha forse anch’essa determinato il piacere che provo nel condurre i seminari […]”.

 

Ed ora un altro ricordo.

Questo appartiene ai primi anni di vita di Eric Berne che nel volume La mia infanzia a Montreal ci riporta alle visite domiciliari del padre medico che, talvolta, il fondatore dell’Analisi Transazionale accompagnava:

 

“Durante le mattine d’estate viaggiavamo in Ford. Non una Ford qualsiasi, ma una splendida Ford con gli spessi cerchioni dipinti di un così vivace color limone da far venire l’acquolina in bocca a guardarli. Le strade in cui vivevano i pazienti erano strette e spesso, quando parcheggiavamo, non si vedevano altre macchine […]. Se si trattava di una visita breve, papà lasciava il motore acceso, in modo da non essere costretto poi a tirare l’aria e a girare ancora la manovella di avviamento. […] Papà suonava il campanello e quella che doveva essere la mamma di qualcuno apriva […]. Papà entrava con la sua borsa nera […]. Io restavo a guardare la porta e la porta guardava me e mi diceva: «Sono una porta e sto tra te e i segreti della vita degli altri». Mi mettevo al posto di guida di quella macchina straordinaria e guardavo tutte le porte che si trovavano su entrambi i lati della strada” (Berne, 2010).

 

Mi piace ripensare di tanto in tanto al bambino Eric e alla bambina Fanita, piccoli curiosi che, accompagnati da figure genitoriali, si avventurano nell’esplorazione dei rispettivi mondi. Luoghi di confine tra normalità e sofferenza, tra esclusione e inclusione: passaggi transfrontalieri che caratterizzeranno anche le loro vite future.

Chissà cosa aveva colpito il bimbo Eric: la porta chiusa, la solitudine, la curiosità, i dettagli meccanici, forse nulla. Mi sarebbe piaciuto chiedergli cosa provava nello stare al posto di guida o cosa s’immaginava accadesse dietro quella porta appena chiusa.

Alla bambina Fanita avrei chiesto che ne pensava di quel mondo variegato che si dava appuntamento nel soggiorno del nonno. Che cosa, secondo lei, attirasse lì tanti adulti. Che cosa aveva portato il nonno a scegliere, rispetto a degli estranei, l’ospitalità invece che l’ostilità?

Chissà invece quanto altro anche il lettore avrà immaginato o provato nel leggere o rileggere questi momenti d’infanzia.

Il ricordo che si fa immagine ha una carica emotiva ed affettiva che quanti lavorano in contesti di cura ben conoscono. Ha la potenza di generare domande, di attirare l’attenzione, di sollecitare vicinanza ed empatia.

Da un punto di vista evolutivo Berne, riprendendo le sue radici psicoanalitiche, ricorda che la potenza delle immagini deriva dalla nostra storia. Egli sottolinea quanto esse siano cariche da un punto di vista energetico e possano avere un’origine preverbale: «È probabile che alcune delle immagini dei bambini siano energizzate enormemente e abbiano un carattere misterioso e magico di immediatezza e di urgenza» (Berne, 1957). Hanno un non so che di magico e con esse accade di provare ciò che assapora un bambino quando guarda dentro un caleidoscopio.

Con Capoferri, nel 2011, al convegno EATA di Bilbao, ho proposto un workshop dedicato al gioco che iniziava con la condivisione di ciò che succede, a livello corporeo, percettivo e mentale, quando si guarda il mondo attraverso un caleidoscopio. I colleghi, superato lo stupore iniziale della richiesta, riportarono sorpresa, piacere, emozioni indefinite, timori circa il «non so come sarebbe andata a finire», la sensazione di tornare piccoli, un po’come guardare il mondo da un pertugio. I presenti sottolinearono inoltre la bellezza e la semplicità di un’osservazione del mondo “altra”, una visione che cambia in continuazione al mutare della posizione e l’accostamento del buio a un’esplosione di colori. Un po’come osservare la realtà, ritagliata e un po’ confusa, vista attraverso “gli occhiali della fantasia”.

«Da dove piovono le immagini e dove vanno?» (Calvino, 1993).

Dare una risposta esaustiva a questa domanda mi appare impossibile e va certamente oltre i miei intenti. Quella che offrirò di seguito sarà invece una serie di spunti tratti dalla letteratura, dall’arte, dal mondo della psicanalisi e dell’Analisi Transazionale che spero possano aiutare il terapeuta di bambini a leggere quanto accade nella stanza di analisi e soprattutto a riconoscerne importanza e valore. Successivamente, evidenzierò quanto scritto attraverso la narrazione di alcuni percorsi clinici.

 

Da un punto di vista letterario

L’immaginazione da un punto di vista letterario sembra emergere da una serie di stimoli che operano a più livelli: dall’esperienza personale dell’individuo a quella culturale di un popolo, dalla realtà sensibile a quella onirica. Il tutto naturalmente accompagnato da un profondo processo che attraverso il pensiero giunge alla parola. Tale percorso è ben ripreso dalle parole di Calvino:

 

“Diciamo che diversi elementi concorrono a formare la parte visuale dell’immaginazione letteraria: l’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero” (Calvino, 1993).

Da un punto di vista artistico

La costruzione di una o più figure sono invece il nucleo da cui si sprigiona l’arte, così come la concepisce Paul Klee. È l’attività figurativa in sé che ha un ruolo generatore. Quasi una maieutica del fare ove il realizzare immagini o figure è già, nel suo realizzarsi, arte. Immaginare e realizzare figure è costruire già parte del mondo e non copiarlo o fotografarlo. L’opera d’arte non è rappresentazione di una natura o della realtà ma ha una dignità sua propria che la rende autonoma, pur nella sua precarietà. «L’arte figurativa non prende mai le mosse da un’emozione poetica o da un’idea, ma dalla costruzione di una o più figure […]. Un’idea può anche aggiungersi ma non è una necessità» (Klee, 1960).

 

“Paul Klee fa coincidere l’opera d’arte con il suo processo realizzativo, compiendo un’operazione profondamente innovativa. L’artista infatti non solo afferma l’autonomia dell’opera d’arte, ma la libera da un ruolo ancillare nei confronti del reale. L’opera d’arte, dunque, esce dalla sfera rappresentativa e perde il proprio ruolo consolatorio o di redenzione; non ci sono più certezze ed essa stessa è implicata nel reale, parte del tutto, luogo precario che tenta il passaggio dal caos al cosmo” (Fiz, 2001).

 

Ricordiamo inoltre quanto Klee consideri la modalità tipica dell’immaginazione e del disegno nel bambino l’aspetto fondamentale intorno a cui si sviluppa la sua opera. Questa è la strada per svelare come nasce il significato segreto delle visioni. Come non ricordare la provocatoria e apparentemente dissacrante interlocuzione: «Non ridere lettore! Anche i bambini conoscono l’arte e vi mettono molta saggezza» (Klee, 1960).

 

Da un punto di vista psicoanalitico

Sin dagli albori del pensiero psicologico Freud e Jung ci hanno più volte ricordato che la rappresentazione mentale è il perno attorno a cui ruota tutta la vita psichica.

In merito poi al meccanismo generatore, «il formarsi dell’immagine è il frutto di un processo in cui sensorialità, proto-emozioni, stimoli indistinti divengono un pittogramma emotivo: quanto urgeva fastidiosamente a monte, diviene un quadro emotivo della mente che alleggerisce le tensioni. È il processo chiamato rêverie che è all’origine del pensiero» (Ferro, Vender, 2010).

L’articolo “Processi non consci e sviluppo del Sé: concetti chiave di Eric Berne e Cristopher Bollas (Cornell, Landaiche, 2008), a cui rimando il lettore, riprende in modo magistrale alcune idee del noto psicanalista Bollas, coniugandole con i contributi di Berne e mi permette di gettare un ponte tra forme di conoscenza pensata o meno, verbale e preverbale, intuitiva, o di memoria implicita che come impronta è scritta anche nel nostro corpo, in altre parole di un sapere udito o visto, ancor prima che compreso. In questo contesto si colloca la nostra ulteriore riflessione che ci porta ai contributi di Analisi Transazionale.

 

Da un punto di vista analitico transazionale

Collochiamo l’immaginazione, intesa come capacità di creare, cogliere, leggere e condividere immagini, all’interno di quella funzione intellettiva che Berne chiama Intuizione.

 

“L’intuizione è la conoscenza basata sull’esperienza acquisita attraverso il contatto sensoriale con il soggetto, senza che chi intuisce riesca a spiegare esattamente a se stesso o agli altri come è pervenuto alle sue conclusioni. Oppure, in termini psicologici, è la conoscenza basata sull’esperienza e acquisita mediante funzioni inconsce o preconsce preverbali attraverso il contatto sensoriale con il soggetto. Questa definizione si avvicina a quella di Jung secondo cui l’intuizione «è quella funzione psicologica che trasmette percezioni in modo inconscio»” (Berne, 1949).

 

Basti pensare a quanta importanza viene data nel processo diagnostico all’immagine, soprattutto nel primo contatto, definita da Berne come «integrazione di impressioni sensoriali e di altro genere l’una con l’altra e con le tensioni interne basate su bisogni presenti ed esperienze passate» (Berne 1949). Questo processo cognitivo è una facoltà tipicamente Archeopsichica (Cornell, Landaiche, 2008), che si manifesta funzionalmente in stato dell’Io Bambino. Tale forma di conoscenza viene sollecitata in modo continuo nel lavoro analitico con i bambini. È una delle forme di sapere, e di comunicazione, prediletta dai nostri piccoli interlocutori, al punto che il terapeuta di bambini ne è esposto quotidianamente e in questo senso grandemente influenzato. Chi sta accanto ai bambini per lungo tempo ne è modificato e apprende a vedere il mondo “ad altezza di bambino”, quasi con i loro occhi appunto, a immaginarlo con la loro mente.

Naturalmente l’energizzazione necessaria di B2 nel terapeuta, atta a sintonizzarsi sul materiale condiviso con il paziente, deve andare di pari passo con la visione e competenza di A2, la cui carica attiva è precondizione per ogni intervento terapeutico.

L’immaginazione permea di sé molte delle attività nel lavoro con i bambini: il disegno, la narrazione fantastica, il gioco, il racconto onirico, la fantasia, al punto che può essere definita come una transazione tipica-specifica che si diparte o arriva dallo stato dell’Io Bambino: «Un B che non è retaggio di fissazioni arcaiche o di patologie che distorcono la realtà ma che è elemento che costituisce la ricchezza e la complessità di una persona» (Blakstone, 1993).

In termini di comunicazione e relazione, allora, l’immaginazione condivisa può essere rappresentata anche come una transazione empatica (Clark, 1991) che coinvolge gli stati dell’Io A e B. Con essa riconosciamo al nostro piccolo paziente il diritto ad avere un suo proprio codice comunicativo, adeguato all’età. Immaginare a quattr’occhi o con due menti, analista-bambino, sarà allora un dare e un ricevere. Come riprende Clark: «L’espressione del terapeuta che comprende l’esperienza del paziente e la conferma del paziente di aver capito».

Ripenso a quanti sguardi condivisi, a quante furtive occhiate d’intesa, a mani che si toccano soddisfatte, al piacere di un gioco costruito.

Questi ricordi talvolta mi appaiono come un album di figurine. Un’associazione, questa, che mi riporta alla meraviglia che mi accompagnava quando giocavo (o guardavo con i miei coetanei) alle “figurine”. Un’intensa attività fatta di scambi, di valutazione del loro valore, di lotta per il possesso, di bellezza estetica e di piacere nel metterle in tasca, riportarle o nasconderle a casa.

Tutti noi le abbiamo collezionate, ricercate, disegnate: sportivi, animali, eroi della storia, album tratti da film famosi. Più in là nel tempo diventano immagini (quadri, fotografie, cartoline) che appendiamo sulle pareti di casa o sono celate in noi, le lasciamo sullo sfondo di un desktop o le ritroviamo per caso nei nostri libri, si perdono per un poco nei nostri appunti di lavoro per poi riemergere e dirci sempre qualcosa di nuovo.

Michele Novellino ci ricorda che le immagini sono una delle vie d’accesso al Protocollo cioè a «quel dramma originale che darà forma al successivo copione» (Novellino, 2012).

Un livello latente di organizzazione somatica e relazionale che opera al di fuori della consapevolezza cosciente e precede la formazione del copione vero e proprio (Cornell, Landaiche, 2008). «Un livello che può essere riportato alla consapevolezza poiché sentimenti ed esperienze trasformano e sono trasformate attraverso l’intimità psicologica che permette l’emergere di simboli, linguaggi, riflessioni e significati e di conseguenza il cambiamento dell’esperienza primitiva in esperienza mentale dell’Adulto» (Hargarden, Sills, 2002).

 

Il contributo di Fanita English

Il contributo dell’Analisi Transazionale, proprio per la sua matrice relazionale, ci permette di fare un passo in avanti. Cosa accade quando due immagini dall’alto valore energetico vengono condivise in un setting clinico? Esse hanno un così alto valore evolutivo da poter realizzare un’altra pennellata in quello schizzo esistenziale chiamato copione: «Sono sempre molto colpita dal modo in cui i bambini sono motivati a tradurre i loro desideri in copioni colorati e da come le creature umane possano trovare modalità immaginative per usare questi precoci schizzi esistenziali, consapevolmente o inconsapevolmente dando supporto allo sviluppo delle loro vite» (English, 2010). Ma qual è la “spinta interna” che favorisce l’emergere di queste rappresentazioni?

 

L’attività immaginativa, scrive English, è frutto del «motivatore espressivo o creativo»:

 

“Il motivatore espressivo o creativo è deputato ad assicurare la sopravvivenza della specie. La procreazione naturale non sarebbe sufficiente per la sopravvivenza della specie umana. Animali più forti ci avrebbero da tempo cancellati dalla terra. La nostra specie sopravvive grazie agli attributi e alle caratteristiche di questo motivatore: la curiosità, l’immaginazione, la creatività, la capacità di assumere rischi, l’attrazione per l’avventura, oltre alla sessualità. Ciò ha permesso ai nostri antenati di trasmetterci i benefici delle loro invenzioni e scoperte” (English, 2010).

 

Una forza che garantisce la sopravvivenza della specie, che permette la costruzione unica e “artistica” del protocollo prima, e del copione poi, come risposte alla ricerca di senso di un bambino nella prima e nella seconda infanzia. È un processo dinamico che cresce e si sviluppa con la persona nel tempo ed ha una potente funzione di autoguarigione.

Tutta la letteratura di Fanita English è accompagnata da queste “visioni”, immagini che danno forza, sostengono e mirabilmente sintetizzano i concetti che costituiscono alcune fondamenta del pensiero analitico transazionale. Basti pensare all’epicopione illustrato dalla “patata bollente”, al multicontratto rappresentato dal “triangolo”, al copione come “mappa”, ai sentimenti “parassiti”, al Bambino “servitore, esploratore e dormiente” e per concludere alla “piccola sirena” (English, 1998). Queste sono rappresentazioni ormai entrate nel vocabolario specifico del nostro lavoro e che condividiamo con i nostri pazienti, vista la loro capacità esplicativa.

English non ha dimenticato che lo sguardo e l’immagine sono la prima forma di comunicazione intersoggettiva ed empatica acquisita dall’essere umano (Stern, 1985; Trevarthen, 2009).

 

Immagini che accompagnano un percorso terapeutico

Incontrare un bambino in terapia significa “guardare” nella incompiutezza del presente, nei suoi dolorosi vuoti, eccessi e disorganizzazioni. È “immaginare” ciò che è trattenuto dalle limitazioni di un protocollo nascosto, o non ancora svelato, è andare oltre a ciò che è percepito solo come disordine e dissonanza. È vedere con uno sguardo che scruta nello spazio del possibile e del potenziale. Il terapeuta di bambini vede

 

“con gli occhi del sogno e della speranza, con uno sguardo che scruta nello spazio del possibile e del potenziale, dell’inconscio come non ancora conscio poiché non ancora portato fuori e messo al mondo, non ancora vissuto. L’intuizione, la creatività, l’empatia artistica lasciano trasparire e intravedere il possibile dietro il reale. Guarda all’orizzonte per quei barlumi che qualche piccolo aspetto nascosto nel presente suggeriscono; allarga cosi la visione del futuro e gli spazi dell’esistenza che sono percorribili” (Attanasio, 2012).

 

Le immagini che accompagnano il mio lavoro con i bambini sono alleate preziose. Possono nascere in me prima che un bambino arrivi in terapia, possono emergere come intuizione nei pochi minuti di un primo incontro o di quelli successivi, possono essermi donate da quel bambino o da un sogno, suo o mio, possono essere co-costruite attraverso disegni a due o quattro mani, giocate con le mani, oppure, al termine di una terapia, appaiono non più come il caso clinico ma come “quadri di un’esposizione” in una straordinaria galleria d’arte (Munari Poda, 2003; Chiesa, 2012).

Eccone alcune esemplificative di diversi momenti del processo terapeutico:

 

  1. Le immagini che precedono l’arrivo di un bambino:Paolo, il dominatore dell’acqua.

È quello che mi accade, e accade a ogni terapeuta, quando una collega ci parla di un bambino che vorrebbe inviarci. In questo caso, Paolo ha sette anni e a scuola non sanno più che fare. Lo trovano nei bagni a tirare gli sciacquoni e quando gli chiedono che sta facendo, lui risponde che «ascolta l’acqua», perché ogni water ha una sua sonorità. Usa questa parola e mi chiedo dove l’abbia appresa, vista la sua età. Il suono preferito è nel primo bagno del secondo piano. Lì l’acqua scende squillante. In altre occasioni le maestre lo trovano nell’intervallo in mezzo al prato, intento ad ascoltare le campane di cui è un grande conoscitore.

L’ho immaginato come il protagonista del film Il dominatore dell’acqua, un fantasy il cui tema ruota intorno al potere di dominare gli elementi dell’universo. Una forza che va di pari passo con la capacità di lasciar fluire il proprio mondo emotivo. Mi sono ritrovato a fantasticarne l’arrivo, in attesa che il servizio di neuropsichiatria finisse la sua valutazione.

Diversi colleghi in supervisione mi hanno sottolineato che ne continuavo a parlare, sebbene non l’avessi ancora incontrato. Credo che i bambini non arrivino mai per caso. Una terapia, tutti noi lo sappiamo, inizia ben prima del primo colloquio. Ho scoperto poi la sua straordinaria capacità di orientarsi nel mondo attraverso i campanili delle chiese, e, soprattutto, il suono delle campane.

La neuropsichiatra teme «lo scivolamento psicotico», visto il suo perdersi in mezzo al campo di calcio o il non rendersi conto, di tanto in tanto, del luogo in cui si trova. Subentra allora la mia paura e questa immagine iniziale si trasforma in qualcosa d’indefinito e angosciante. Come l’acqua che è fonte di vita, ma anche causa d’immani catastrofi. I nostri fantasmi e le nostre speranze, precedono sempre l’arrivo di un bambino.

 

  1. Le immagini che nascono dal primo contatto:Giorgio, un po’ drago e un po’ orso(fig. 1).

Giorgio utilizzando un foglio realizza due disegni che compaiono o scompaiono sostituendosi l’uno all’altro. È una tecnica che ha appreso a scuola e me la mostra con piacere. Sembra un gioco che svela e al contempo nasconde.

Spesso in un primo colloquio invitiamo il bambino a realizzare un disegno, l’Urbild (Munari Poda, 2012), e, se ne ha voglia dopo averlo terminato, gli proponiamo di raccontarcene la storia.

Ho pensato molto al senso di questa proposta che è incipit raffinato e delicato. Ho immaginato questo ponte costruito tra l’A1 e l’A2 attraverso l’immagine e la parola. Un ponte tra processo primario e secondario, come citerebbero alcuni noti psicanalisti.

Eccone la narrazione: C’era una volta un drago che viveva in una casettina piccola e un giorno incontrò un orsetto che si era sperduto. Era senza mangiare e bussò alla porta del drago. E aprì e il drago rispose: «Puoi entrare». E l’orsetto gli disse: «Hai da mangiare?» E il drago rispose: «Sì». L’orsetto disse: «Potrei un pochino mangiare?». Il drago disse: «Sì». Il drago e l’orsetto diventarono amici.

Il drago e l’orso di Giorgio sono quasi un invito e un avvertimento. Occasione d’incontro oltre e prima della parola. Quanto c’è di predittivo di un futuro percorso terapeutico, ed anche di una vita, nella prima storia co-costruita in terapia con un bambino? Essa è davvero un momento magico, un inizio e, come tutte le origini, è comunicazione del misterioso, dell’arcano. Il luogo dell’attaccamento appare piccolo e il senso di smarrimento invece è grande. La richiesta di aiuto, un abbozzo di contratto, è palese così come la disponibilità a un lavoro a due. Lo scoprirò, poi, che il perturbante, in fondo, è sempre una questione di Draghi, i loro e i nostri (Munari Poda, 2010).

Io e lui, una relazione e una casa dove sostare momentaneamente, per nutrirsi, ma non troppo, quel tanto che basta a ripartire. In fondo gli effetti iatrogeni della psicoterapia sono sempre dietro l’angolo e poi i genitori forse non tollererebbero troppo una figura genitoriale vicaria. Un disegno e una storia allora, che non è solo occasione di studio reciproco e d’incontro ma anche progetto terapeutico e iniziale, nonché, rispettoso Self-Reparenting che già prevede una fine e un saluto.

 

  1. Le immagini che accompagnano la terapia:Emanuele, una traversata con il Titanic(fig. 2).

Emanuele, otto anni, è un bambino molto alto per la sua età, chi non lo conosce pensa sia più grande e come tale vi si rapporta. Eloquio forbito, voglia di inventare e costruire, sempre in movimento. Una collega me lo ha inviato perché ultimamente parla molto con Gesù. Sarà legato, ho pensato, a un percorso di catechesi per la prima comunione o qualcosa di simile. No, aggiunge lei, Gesù ultimamente lo disturba, perché continua a chiacchierare anche quando sta facendo le verifiche a scuola. Le insegnanti dicono sia freddo e “ipocondriaco”. Talvolta è vittima anche del gossip di classe. I compagni gli avevano detto che sarebbe stato bocciato, ma la pagella è discreta. Dopo le rituali presentazioni del luogo e di me, egli esprime una richiesta che mi coglie di sorpresa: «Voglio costruire il Titanic, sai cos’è?». Dopo il mio assenso, aggiunge in modo perentorio, forse pensava a un mio timore implicito o che non avessi colto: «Lo facciamo proprio quando va giù, quando affonda. Sai, a casa ho un dvd con un documentario che ti racconta tutta la sua storia».

Ripenso alle bellissime parole di Berne che mi ricordano cosa significhi essere un analista transazionale:

 

“Stando sulla piccola isola dell’intelletto, molti di noi tentano di capire il mare della vita, ma al massimo possono capire solo i relitti galleggianti, la flora e la fauna che sono gettati sulle spiagge. Usare un microscopio verbale o meccanico per osservare ciò che troviamo non ci aiuterà molto a sapere ciò che c’è oltre l’orizzonte o nel profondo. Perciò dobbiamo nuotare o immergerci, anche se la prospettiva ci sgomenta” (Berne, 1964).

 

Il nostro lavoro terapeutico seguirà di pari passo le peripezie del più noto transatlantico, ma giungerà ad una meta assai meno nefasta. Ai bambini talvolta piace testare quanto possiamo reggere il loro passo e, una volta superato uno o più esami, si può imparare anche a navigare con loro, grazie ad una bussola di scorta, evitando gli iceberg più pericolosi. Lo abbiamo fatto insieme. Un lavoro che ha richiesto la conoscenza della vera storia di questo transatlantico e, ogni qualvolta ci è stato possibile, abbiamo inventato le mille e una strategie di sopravvivenza possibili: scialuppe di salvataggio da costruire, kit di sopravvivenza da raccogliere, mappe con percorsi verso casa da preservare. Un modo per raccontarci, io e lui, che se i primi anni della vita sono stati fortemente segnati da alcuni condizionamenti familiari, il destino non esiste. I capitoli successivi e la fine della sua storia sono ancora da scrivere.

 

  1. L’immagine del saluto:Mattia e il rifugio per il gatto(fig. 3).

Conosco Mattia, di nove anni, per alcune difficoltà d’inserimento scolastico nel nuovo istituto in cui era giunto. Ultimamente amava “nascondersi” perché con il trasloco tutto lo spaventava, il nuovo quartiere, i compagni e le maestre che non conosceva. Dopo pochi colloqui ed evidenti miglioramenti, il lavoro della famiglia e la sensibilità delle insegnanti sono stati preziosi alleati. Egli mi parla del suo gatto appena acquistato e aggiunge che è un po’ come lui e me lo disegna con una porta di casa che si apre e una che si chiude.

Gli serve una tana, egli aggiunge, si mette sempre nei cartoni o si nasconde sotto il letto, se qualcuno suona alla porta. È un cucciolo di gatto, indeciso se stare rinchiuso all’interno dell’appartamento o se uscire. Talvolta, ad esempio, viene a osservare e da un angolo della sala guarda i presenti. Mattia aggiunge che «lui (il gatto) qualche volta vuole curiosare. Oltre che girare per casa, esce nelle scale e va a annusare gli odori nuovi». Anche per Mattia forse è venuto il momento di “annusare” il nuovo mondo che è chiamato ad abitare. In Analisi Transazionale, lo chiamiamo il permesso ad andare. E finalmente, penso io, il Bambino esploratore, di cui ci parla English, ha nuovamente l’energia di cui ha bisogno per supportarlo nella sua crescita.

E di fronte a tutto questo, cosa resta da fare a un terapeuta di bambini?

Il suo compito sarà

 

“[…] di rispettosa testimonianza e del dispiegarsi della “spinta espressiva” dei piccoli pazienti, che rende ciascuno diverso nel senso di un unico, irripetibile se stesso. Testimone che a tratti si fa compagna di danza o di giochi, o interlocutrice di un linguaggio segreto e speciale. La terapia con il bambino si nutre anche del gusto della narrazione, della levità dello scambio, del fervore della co-creazione. È un modo di «fare immagini» insieme, che restituisce al piccolo dignità e gioia. E un modo di dare spazio di significato e dignità anche alle memorie senza parole o pensiero, alle ombre vaghe, talora terrificanti, spazio al «conosciuto non pensato». Memorie dove pensiero corporeo e immaginazione si confondono, eppure necessari entrambi per dare senso e forma alle ombre e continuità alla propria storia, quando non si hanno o non si vogliono avere parole per raccontare” (Attanasio, 2012).

 

Conclusione

In conclusione, anch’io ho un’immagine che voglio condividere con il lettore. È un quadro, La Promenade di Marc Chagall, dipinto tra il 1917 e il 1918, da tutti conosciuto, ma che oggi ha per me un significato particolare. Una rappresentazione che dice anche di come io immagino una persona a me cara, una collega che è stata mia Maestra e Maestra di molti di noi. È dedicata a Carla Giovannoli, perché è così che mi piace immaginarla. Lascio alle parole di Chagall bambino l’unico commento.

 

“Non dico niente del cielo, delle mie stelle infantili.

Sono le mie stelle, le mie dolci stelle; mi accompagnano a scuola e m’aspettano in strada fino al mio ritorno. Poverette, scusatemi! Vi ho lasciate sole a un’altezza così vertiginosa!

Città mia, triste e gaia!

Bambino, ti osservavo dalla nostra soglia, puerile. Apparivi chiara, agli occhi infantili. Quando lo steccato me lo impediva, montavo su un piccolo paracarro. Se neppure così riuscivo a vederti, salivo fin sul tetto. Perché no? Anche mio nonno ci saliva.

E ti contemplavo a sazietà.

Qui, nella via Pokrovskaja, io nacqui per la seconda volta” (Chagall, 1931).

 

Ho aperto con Italo Calvino e con lui chiuderò:

 

“Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini” (Calvino, 1993).

 

Un grazie allora a Fanita English, per averci insegnato che «le conversazioni con i bambini sono spesso conversazioni al confine del sogno» (Ogden, 2001).

 

Bibliografia

Attanasio S., Prefazione a Munari Poda D., Il posto delle fragole, La Vita Felice, Milano, 2012, pp. 29-50.

Berne E. (1949), “La natura dell’intuizione”, in Intuizione e stati dell’Io, a cura di Novellino M., Astrolabio, Roma, 1992, pp. 15-41.

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