Articoli e libri

ARTICOLO M. T. Romanini: Il setting analitico transazionale nella psicoterapia dei bambini
di Maria Teresa Romanini
Per gentile concessione della Società Italiana di Metodologie Psicoterapeutiche e Analisi Transazionale (SIMPAT), l’Associazione I.T.A.C.A. riporta qui l’articolo di Maria Teresa Romani (1997) “Il settting analitico transazionale nella psicoterapia dei bambini”, pubblicato nel n. 32 della Rivista italiana di analisi transazionale e metodologie psicoterapeutiche (pag. 64-87).

IL SETTING ANALITICO TRANSAZIONALE NELLA PSICOTERAPIA DEI BAMBINI

Maria Teresa Romanini

Parlando di «psicoterapia dei bambini» mi riferisco all’intervento analitico transazionale (spesso detto «di gioco») con soggetti nei primi dieci-quattordici anni di vita e che si riconoscano nello stadio dell’Io Bambino.

Anche tra I dieci e i quattordici anni si può saltuariamente utilizzare il «gio­co» come forma di relazione: è possibile infatti che il ragazzino e/o la ragazzi­na scivolino rapidamente e ripetutamente dallo stadio dell’Io Bambino allo stadio dell’Io Adulto ed è importante che l’analista muti la transazione a se­conda dello stadio dell’«lo reale» in cui il suo paziente si trova, badando che si tratti effettivamente di Io reale (il cui continuo mutare è fisiologico a questa età) e che non si tratti invece di comportamenti copionali legati all’avvicinar­si della crisi adolescenziale (ad esempio: il passaggio dal «non crescere» al «non essere bambino» o ancora «non pensare» che può simulare l’Io reale B e vice­versa «non sentire i tuoi sentimenti» o «non fidarti delle tue intuizioni ed em­patie» che può simulare l’Io reale A).

In questo articolo riporto il mio secondo intervento alle «Giornate Italiane di Analisi Transazionale, 1996» facendo seguito al primo intervento che è sta­to pubblicato sul n. 31 della rivista «AT e Metodologie Psicoterapeutiche». Molte delle tecniche di gioco e le strutture del setting che espongo sono usa­te anche da altre forme analitiche.

La teoria di personalità analitico transazionale dà ragione, sulla base del­la evoluzione umana in stadi dell’Io segnalati dall’Io reale, della specificità della relazione analitica con i bambini, che è relazione centrata sulla struttura con Io reale in B dell’analizzato e di conseguenza sul fatto che anche l’A di quest’ultimo è più facilmente agganciato nel gioco o in attività vissute co­me ludiche piuttosto che in conversazioni mantenute dirette e a transazio­ne A-A. Ne consegue lo specifico rapporto tra analizzato e analista come rapporto dispari tra due persone caratterizzate dalle diverse strutture di sta­dio della vita (Romanini, 1991). Con i bambini e i preadolescenti, quindi, pur nel rispetto paritario alla persona, l’analista si trova in un rapporto di­suguale e con una specifica responsabilità che non è solo quella legata alle ri­chieste di analisi e al contratto ma è inoltre una precisa responsabilità di educazione. Per questo io cambio con i bambini il mio normale rapporto analitico pur mantenendo una paritarietà di rispetto alla persona e alla dignità dell’analizzato ed esprimendomi quindi nel gioco in transazioni A-A o B-B.

Mi attengo infatti nell’analisi coi bambini a una particolare forma di repa­renting che rispetta la disuguaglianza del rapporto tra un adulto e un bambi­no e che rispetta inoltre ed evidenzia le parti sane del soggetto riproponendo per le altre un nuovo G portatore di permessi generali: in primo luogo il per­messo di esistere (focalizzato alle particolari qualità e carenze di A e di B del soggetto), poi il permesso di essere bambini e di conseguenza di accettare la crescita futura, il permesso di pensare (senza per questo viversi «donnine» o «ometti»), il permesso di provare e di esprimere ogni sorta di sentimenti nell’accettazione di sé e degli altri.

Altri permessi naturalmente possono essere necessari per far sì che il singo­lo bambino superi i suoi problemi attuali. Uso, in altre parole, un reparenting che è fisiologico, anzi inevitabile, quando un rapporto di attaccamento si sta­bilisce tra una persona in età adulta (Io reale A) che dimostra potere, potenza e protezione e una persona ancora nell’età della dipendenza infantile (Io reale B) che si sente accettato, aiutato a liberarsi dai propri problemi e a viversi; amabile, libero, capace, adeguato responsabile per quanto gli è dato dalla sua età. In definitiva quanto è reciprocamente fisiologico nel gruppo umano tra adulti e bambini è espressamente elevato nella Analisi Transazionale applicata all’infanzia a sistema di cambiamento della struttura di personalità del pa­ziente a partire dal mutamento del suo G (reparenting). Per ottenere ciò l’a­nalista, usando le «transazioni di permesso» che di volta in volta si dimostra­no necessarie, si presenta come nuova figura genitoriale che contrasta e ridefinisce ingiunzioni, ordini e programmi limitanti per il paziente.

In questo modo si rispetta il bambino che come «piccolo» osserva il «gran­de» per imparare a divenire a sua volta «grande» e si rispetta insieme l’analista che dal suo stesso rispetto per l’età infantile, è chiamato a vivere nella relazio­ne la posizione di «grande», anzi di «Genitore».

Oltre che di analisi si tratta infatti di «riformazione» del G presente nel sog­getto perché con un G più sano possa guidarsi nella crescita che lo attende, adattandosi al suo gruppo ambientale pur mantenendo interne e libere le pro­prie innate capacità cognitivo-affettive. L’analista, come e talvolta più dell’in­segnante, è anche Genitore normativo aggiuntivo (quando non sostitutivo): il «grande» che dà le nozioni di base e risponde ai possibili dubbi perché il «pic­colo» possa crescere in modo adeguato e possa essere accettato nel gruppo umano in cui si troverà a vivere.

Attuando volutamente il reparenting, anche quando sceglie con i preadolescenti tale intervento in modo saltuario e/o solo sul piano delle transa­zioni psicologiche, lo psicoterapeuta assume la responsabilità del rapporto col suo analizzato, rispettandone l’immaturità dei processi mentali supe­riori.

Altrove ho già accennato alla mia convinzione che prima dei cinque anni l’analisi diretta al soggetto sia necessaria solo in casi di «rottura di membrana» o per problematiche reattive che segnalano una grave paura di crescere e/o di accettarsi in relazione ai genitori (dall’autismo a forme che lo isolano o lo de­finiscono gravemente negativo, ad esempio encopresi o crisi di aggressività mirata) e che, anche in questi casi, vada mantenuta il più possibile breve. In tutte le altre sintomatologie psichiche presentate da bambini nei primi anni di vita preferisco, dopo un incontro a tre con figlio e genitori, proporre l’analisi a questi ultimi, a cui naturalmente chiarisco che l’analisi personale che essi in­traprendono sui loro problemi ha per scopo finale (se pure come risultato se­condario) il miglior rapporto col bambino per permettere a quest’ultimo di superare i suoi attuali problemi, senza sottoporsi ad analisi. All’altro estremo dell’età infantile, la preadolescenza porta con sé il riproporsi degli ordini di copione come inconsapevole resistenza alla crisi di identità imminente; l’azio­ne analitica è quindi centrata a liberare il ragazzino dalla ineluttabilità e rigi­dità delle sue difese dandogli, come modo di liberarsi dall’impasse, la possibi­lità di vivere come consigli gli ordini del copione. A questa età non sempre e non tutta l’analisi è «analisi di gioco» e l’analista sceglie di volta in volta come comportarsi, mutando anche nell’ambito della stessa seduta il rapporto di setting da reparenting a Self-reparenting.

Ricordo ancora, prima di addentrarmi nella descrizione tecnica, la specifi­cità del rapporto di analisi coi bambini che si basa sulla particolate struttura di personalità in questa età, una struttura che centrata sulle capacità affettivo-intuitive umane (PP e B1). Il «cucciolo umano» dipende dall’adulto prima di tutto per apprendere a essere se stesso conoscendosi dai giudizi altrui; per que­sto è particolarmente sensibile ai messaggi ulteriori che coglie con estrema fa­cilità e non giudica, limitandosi ad aggiungerli al proprio bagaglio di esempi sul «come si fa a essere persone» nel gruppo umano in cui sta crescendo e co­me possibile nuova informazione sul ruolo identificatorio più utile per essere comunque accettato.

E’ per questa ragione che sembra che i bambini perdonino molto agli adul­ti e quindi ai loro analisti. Per la stessa l’analista, quando si accorge di aver fat­to un intervento sbagliato, può con maggior facilità di come avviene nel rap­porto con gli adulti, aggiustare il tiro delle proprie transazioni ottenendo dal bambino la risposta adeguata. Al di là di questa facilitazione però, la partico­lare struttura dei bambino permette, più facilmente della struttura dell’adul­to, di percepire le transazioni ulteriori e di mettersi in contatto empatico con i possibili conflitti inconsapevoli dell’analista.

Cosi, pur usando nel gioco transazioni parallele B-B o A-A, è importante rimanere consapevoli della oggettiva disparità del rapporto analista-analizzato a favore dell’analista, oltre che di ruolo, di età e di potere (al contrario di quanto accade nella AT con gli adulti, quando l’analista isolatamente o per metodo usi il G per rispondere ad A o a B dell’analizzato) e del fatto che il pic­colo paziente percepisce acutamente la differenza di rapporto che gli permet­te, come fisiologico nella sua età, di vivere l’analista come ulteriore figura «identificatoria» (o secondo Muriel James «nuovo G»), assumendone quindi non solo le parti sane ma inoltre i possibili comportamenti copionali e in par­ticolare quelli che possano rinforzare i comportamenti copionali che già fan­no parte del suo Genitore.

1. La Stanza  dei giochi

La stanza appositamente preparata per gli incontri terapeutici con i bam­bini dovrebbe essere in modo evidente una «stanza per poter giocare». La stan­za dei giochi è attrezzata con un tavolo (con carta e matite di ogni genere, il temperamatite, la colla e le forbici, plastilina colorata), qualche sedia, un di­vano, una libreria con sportelli chiusi (o cassetti) e spazi aperti per i giocatto­li, i libri e i dolci tenuti in vista, una grande lavagna (con gessetti a più colo­ri), una scaletta a due o tre gradini che serva ad arrivare ai piani più alti della libreria (e anche, ai più piccini, a esperimentare la propria capacità fisica e il superamento della paura), eventualmente dei cuscini per sedersi a terra e qual­che apparecchio ginnico, due o più vassoi di sabbia con le misure classiche, una facile presa d’acqua, contenitori di dolciumi.

Non sempre chi fa psicoterapia con i bambini può valersi di una stanza di gioco appositamente attrezzata: basterà in questi casi che si abbia a disposi­zione fogli, matite colorate (eventualmente plastilina, colla, forbici spuntate) e almeno una scatola o due (o un cassetto) per i diversi giocattolini (che pos­sono essere preparati dall’analista in evidenza sul tavolo prima della seduta op­pure possono essere conservati al chiuso per essere «scoperti» di volta in volta dal soggetto). E utile inoltre un’altra scatola «personale» per ogni piccolo ana­lizzato che le/gli possa servire per conservare i piccoli manufatti frutto del suo lavoro in seduta.

E’ importante che, comunque sia arredata, la stanza dedicata all’analisi, o l’uf­ficio ove si esercita tra le altre cose anche l’analisi con i bambini, sia protettiva e accogliente, e fin dal primo momento, per il bambino; è importante cioè che sia tale da stimolarlo/a a essere curioso, a muoversi, a giocare ed, eventualmente, a esprimere ira e distruttività senza pericolo né per sé né per l’analista.

È bene che tra gli oggetti messi a disposizione del bambino non ci sia nul­la che possa essere usato come oggetto contundente pericoloso o che, rompendosi, possa farle/gli male e ben poco che non possa essere aggiustato dal bambino stesso insieme all’analista. Gli scomparti chiusi nella libreria, o la scatola da scarpe, permettono al bambino di esplorare, trovare oggettini nuo­vi, scegliere, prendere e guardare all’aperto le cose che lo attirano. Alcuni scomparti sono facilmente apribili, altri invece, personali per ciascun piccolo analizzato, sono chiusi perché servono a rinchiudere i suoi piccoli manufatti per conservarli, protetti dalla curiosità altrui, nel tempo tra una seduta e l’al­tra. È bene che i giocattoli, oltre a non rompersi con facilità ed essere di poco valore, possano stimolare la fantasia del bambino.

Anche se non strettamente necessaria, può servire una certa varietà di gio­chi: pupazzi e burattini di peluche, bambole, figurette di animali e uomini usati per i plastici dei trenini elettrici, costruzioni in legno, la casa delle bam­bole, alcune scatole di giochi da tavolo ed eventualmente un computer che interessano i più grandicelli. Un particolare discorso va fatto sulle armi di va­rio tipo, sempre con proiettili che naturalmente non siano contundenti (ad esempio fuciletti che sparano palline di plastica leggera). Questi giocattoli amati da maschietti e femminucce servono a permettere con un gioco inof­fensivo l’espressione dell’ira rendendo il soggetto consapevole sia dei propri sentimenti reattivi sia delle conseguenze del passaggio all’atto di questi (a se­conda dei suoi blocchi cognitivi/affettivi e dei suoi problemi comportamen­tali) e servono inoltre all’analista a instaurare un colloquio che chiarisca la differenza tra aggressività e assertività e trovi opzioni per gestire l’ira trasfor­mandola da distruttiva a costruttiva. Un altro utile attrezzo è il vassoio di sab­bia, secondo la tecnica della Kalf (una tecnica spesso non accetta in uffici usati solo saltuariamente per l’analisi infantile perché lascia molta sabbia sui pavimenti). Quando sia possibile tenerlo, il vassoio permette l’espressione della fantasia anche a bambini molto piccoli e non capaci di disegnare. In più da un lato la sabbia permette di esprimersi in modo tridimensionale e il suo particolare contatto stimola la cinestesia (e quindi il B del bambino) e dal­l’altro lato dà modo di poter usare l’acqua e di accendere senza rischi il fuo­co, dando limiti precisi alle espressioni emotive negative proteggendo e faci­litando al bambino l’uso terapeutico della fantasia e della speranza. Natural­mente la lettura dei plastici di sabbia e delle «storie» raccontate dal bambino è fatta, invece che secondo la teoria junghiana secondo la teoria analitico transazionale. Sulla quantità dei giocattoli da mettere a disposizione si discu­te; personalmente ritengo che si possa fare analisi di gioco con ben pochi strumenti e che semmai una dote varia serve soprattutto a scopo diagnostico delle problematiche psicologiche del soggetto. Il primo impatto con la «stanza dei giochi» in ultima analisi è, a mio avviso, di notevole valore diagnosti­co permettendo all’analista AT di supporre la posizione esistenziale e il possibile problema sottostante ai sintomi per cui è richiesto l’intervento psicote­rapeutico.

Una stanza con molti giocattoli può in un primo momento stimolare con­fusione o agitazione nel bambino, che in questo caso può mettersi a correre da un oggetto all’altro e da una parte all’altra della stanza incapace di scegliere op­pure, come preso da una gran fretta di conoscere e impossessarsi dei più di­versi particolari dell’ambiente, inizia a toccare e aprire ogni cosa, sia senza chiedere, sia continuando invece a domandare spiegazioni e permessi. Altri bambini ancora sembrano intimiditi o indifferenti alla novità dell’ambiente e si bloccano motoricamente, altri ancora reagiscono criticando lo stato dei gio­cattoli o paragonandoli negativamente a quanto sono abituati ad avere a loro disposizione. Non sempre i bambini possono mangiare dolciumi ed è bene che lo psicoterapeuta, anche se ne conosce bene la utilità diagnostica e il valo­re transazione di permesso dal proprio G nutriente, si accerti che non siano pericolosi per la salute del suo piccolo paziente. Quando non ci siano con­troindicazioni fisiche in proposito, io faccio trovare al bambino dei recipienti con qualche caramella in vari posti sia nella stanza dei giochi sia nelle altre stanze ove può recarsi. Come per i giocattoli la reazione ai dolci varia da bam­bino a bambino, fin dal suo primo impatto con la stanza di analisi. C’è il bambino che, furtivamente o, viceversa, in modo provocatorio, prende tutte le caramelle e se le ficca nelle tasche senza mangiarne nessuna e c’è quello che oltre a prenderle le mangia subito; c’è il bambino che prende due o tre cara­melle e ne mangia una lasciando le altre sul tavolo quando se ne va e c’è il bambino che guarda le caramelle ma non le mangia per una, due, tre sedute. In quest’ultimo caso il fatto che alla fine si appresti a mangiare dimostra il na­scere della sua fiducia nell’analista. Ci si deve attendere che al primo impatto con lo psicoterapeuta molti bambini esprimano il loro disagio con l’agitazio­ne e molti con l’astensione.

Quest’ultimo modo è particolarmente evidente in ragazzini in età scolare, quando si tratta d’usare gessetti e lavagna; molte volte ho avuto l’impressione che in ciò entrasse oltre al disagio specifico il fatto che questo tipo di espres­sione è considerato dal bambino come parte dei suoi impegni scolastici e lo ri­porta a essi facendolo quindi sentire soggetto al giudizio dell’adulto (ove chi voglia può parlare di situazione di transfert sociale).

Ricordo che l’analisi con i bambini non si svolge necessariamente sempre nella cosiddetta «stanza dei giochi», spesso anzi la sede può cambiare radicalmente, cosicché analista e bambino parlano tra loro mentre fanno una passeggiatina o vanno insieme a mangiare un gelato o si spostano a giocare nel giardino o nel cortile. Questo può rivelarsi utile come alternativa alla seduta classica, particolarmente in preadolescenza, e può diventare sorgente di ulteriori confidenze e giochi. L’analista può usare la breve uscita a due per gli sco­pi più diversi: superare delle resistenze, discutere o direttamente far superare delle fobie, alleggerire un momento di particolare tensione, dare al bambino la scelta nella strutturazione del tempo. La cosa importante, comunque e do­vunque la seduta si snodi, è che il rapporto analista bambino si svolga m mo­do insieme spontaneo e accogliente e che stimoli il piccolo paziente a viversi nel doppio okness.

2. Il contratto

II contratto di analisi con un bambino è sempre un «contratto a tre»: ana­lista, genitori e soggetto. Infatti per prima cosa il contratto di analisi del figlio va deciso con i genitori, con il fine della risoluzione delle problematiche che essi lamentano e allo scopo di stabilirne il rapporto sociale, l’orario, l’onere fi­nanziario. Con i genitori inoltre, qualora risulti necessario e l’analista decida di intraprenderla personalmente, si stabiliscono i termini dell’analisi dei ge­nitori.

 

II secondo contratto del «contratto a tre» è fatto tra analista e bambino.

L’analista infatti chiede anche al bambino, qualsiasi età abbia, di stabilire un contratto – che può risultare diverso nei contenuti da quello con cui l’a­nalista nei suoi confronti si è impegnato con i genitori – e che ritiene di poter portare a termine in modo che il risultato finale sia di adempierli entrambi.

Il contratto col bambino è un accordo verbalizzato a proposito dello scopo degli incontri di analisi: bisogna quindi che il bambino, per quanto piccolo, esprima un suo desiderio in proposito. Il contratto quindi non può essere confuso con l’ammissione da parte dei bambino di quelli che ritiene i suoi problemi e tanto meno con il suo desiderio di trovare qualcuno disposto a giocare con lei/lui.

Più ancora che con gli adulti con i bambini è necessario, prima di stipula­re un contratto, un tempo che permetta la reciproca conoscenza e induca il bambino a sentirsi accettato oltre che ad accettare un nuovo tipo di incontro con un «adulto che gioca con i bambini per aiutarli a superare i loro problemi». In realtà questo tempo di solito è molto breve perché non è difficile ras­sicurare un bambino e iniziare un rapporto di attaccamento con lui.

Ritengo che fin dal primo momento, alla presenza dei genitori, l’analista debba presentarsi nella sua veste professionale, facendo ciò con parole che possano essere capite anche dal bambino. In questo modo si pongono fin dai primi momenti le basi del rapporto di reparenting senza che vi possano esse­re fraintendimenti di ruolo.

Le parole piane e il primo abbozzo di gioco, magari un disegnino su un fo­glio, mettono i ragazzini più spaventati e riottosi a loro agio e le caramelle condivise o la richiesta di spiegare il disegno fatto in transazione B-B, com­pletano i primi abbozzi di una relazione amichevole tra adulto e bambino che può permettere la successiva intimità analitica.

Il contratto nasce dopo, quando la fiducia è possibile, e si limita a com­portamenti concreti e misurabili che il bambino possa valutare da solo. Di solito, già nel presentarmi come un dottore che cura i problemi dei bambi­ni giocando con loro, chiarisco il mio ruolo professionale. Ovviamente si possono dire le cose più diverse e fare le più diverse domande. Molte volte, specie in uffici pubblici, il bambino è accompagnato dall’analista dai geni­tori e ricevuto per la prima visita insieme a loro. Questo fatto, anche quan­do i genitori sono severi e rifiutanti può servire a facilitare il discorso con il bambino e ne attutisce l’ansia. L’analista all’inizio del primo incontro si ri­volge ai soli genitori, che interroga sulle ragioni della loro richiesta, mentre porge al figlio il materiale da gioco che ha sottomano. Nello stesso modo, pur proseguendo apparentemente il colloquio con i soli genitori, con do­mande che gli chiariscano gli eventuali rapporti familiari e le problematiche sociali dei genitori, l’analista osserva nel contempo il modo di reagire del bambino all’ascolto delle problematiche proprie e di quelle dei genitori, di cui si parla in sua presenza ma non direttamente a lui, riproponendo una si­tuazione a cui di solito i bambini sono usi. Lo psicoterapeuta parla con i ge­nitori, ma tiene d’occhio nello stesso tempo il gioco del figlio e quando co­glie in questo segni di turbamento, espressi ad esempio dal mutare improv­viso del gioco e del disegno o dalla sospensione di ogni movimento collega­to alle parole dei genitori, interviene interrogando direttamente e amiche­volmente il ragazzino/a sul suo gioco e facendoselo spiegare. Ciò serve a rompere la tensione di genitori e figlio e ad aumentarne la fiducia; serve so­prattutto però a sapere, sia pure attraverso il simbolo del gioco o del disegno, il vissuto del bambino e a intervenire su di esso, fin dalla prima seduta. Quand’anche per le ragioni più diverse si decida di non intraprendere una terapia o di inviare il soggetto ad altro analista, l’incontro non è stato vano per il soggetto.

Già alla prima intervista, quando la patologia è evidente, o comunque en­tro le prime due o tre interviste è possibile infatti decidere se e come interve­nire e concretizzare il «contratto» con il ragazzino.

Ho già detto che, anche quando si tratta di bambini, il contratto, per esse­re tale, deve partire da una proposta del soggetto discussa a due con l’analista, perché si possa giungere a un patto di collaborazione che convinca entrambi.

Poiché però, come naturale, i genitori potrebbero prender parte alla di­scussione in modo diretto, è necessario che il contratto con il bambino sia sti­pulato senza la presenza dei genitori. Per fare ciò l’analista chiede ai genitori di attendere qualche tempo fuori dalla stanza e riprende il gioco con il bambino, ovvero quando ciò non sia possibile (ad esempio perché il bambino teme di essere lasciato solo) il contratto è rimandato a quando il bambino si sentirà tranquillo nel rapporto a due o non sentirà più l’analista come estraneo. In questi casi ne risulta il primo contratto è di «rivedersi per qualche volta»: un contratto in definitiva volto a formare l’alleanza terapeutica.

Più spesso invece, fin dalla prima seduta, il bambino si apre all’analista e di­ce di sé, proponendo quello che secondo lui/lei è il disturbo da superare. La discussione sul possibile scopo per lavorare insieme è fatta il più precocemen­te possibile nel rapporto a due, e in colloquio dispari per la realtà fisica e di ruolo ma paritario nelle transazioni e rispettoso della unicità e dignità del bambino, come uno spontaneo parlare mentre insieme si continua il gioco o il disegno iniziato alla presenza dei genitori; il disegno stesso d’altronde può divenire un mezzo simbolico per discutere un contratto utile e raggiungibile in tempi adatti a un bambino.

Il fatto che il bambino abbia ascoltato quanto i genitori dicevano di lui/lei all’analista, può servire come punto di partenza per il colloquio a due. Infatti di solito il bambino sa bene di cosa si lamentano i genitori e i difetti che ri­scontrano in lui. Non sono nuovi neppure, di solito, i problemi dei genitori, tanto quelli personali, come quelli di coppia, come quelli che i genitori han­no con persone estranee alla stretta famiglia nucleare. La novità sta invece nel fatto che l’analista chiede in privato e a lui/lei direttamente quale sia il pro­blema che desidera affrontare e superare.

Torno a sottolineare che, nel richiedere al giovane paziente di proporre un contratto di analisi, l’analista prescinde da quanto gli è stato comunicato dai genitori, anche se questo è avvenuto alla presenza del soggetto. Invece inizia il dialogo a due presentandosi e spiegando che non gioca con i bambini per gio­care ma per aiutarli nei loro problemi e di problemi ne elenca alcuni ovvero direttamente chiede quale problema il bambino voglia superare.

Se, come avviene nelle visite in ambulatori pubblici, il bambino è consape­vole di essere stato accompagnato da un «dottore» il discorso è chiaro fin dalla prima visita, se invece è fatto in uno studio privato può accadere di dover subito smentire i genitori che hanno precedentemente detto al figlio che lo avrebbero accompagnato da una amica della mamma o una zia e cosi via. In questi casi l’analista mentre gioca col bambino e chiarisce la situazione e la propria figura professionale con tranquillità e con parole piane, ad esempio quelle citate più sopra, e continua accennando ai propri possibili interventi, (sono un medico che giocando aiuto bambini che hanno dei problemi: non studiano, litigano con i fratelli, fanno la pipì a letto» e cosi via, sempre evitando di citare il problema comportamentale che i genitori lamentano nel soggetto) e gli/le chiede in modo diretto la ragione per cui ritiene di essere sta­to accompagnato allo studio. Tra l’altro, come sopra accennavo, il bambino sa perfettamente da chi e perché è stato accompagnato ed è in grado di rispondere, naturalmente a modo suo. Nell’elencare i problemi possibili l’analista eviti appositamente di parlare del problema di cui i genitori si sono lamentati per permettere al bambino di dire quello che lui/lei considera la propria difficoltà. Questo, oltre a permettere una certa libertà di scelta al bambino e a dar  modo di dire in privatola sua necessità, permette una ulteriore conoscen­za delle sue problematiche e l’inizio di un rapporto privilegiato di attacca­mento.

Spesso il bambino non menziona il problema per cui è stato inviato in analisi, ma si lamenta di altro. L’analista si trova cosi di fronte a due diversi problemi comportamentali, l’uno lamentato dai genitori e l’altro dal figlio, di solito sintomi dello stesso problema psicologico profondo. Sceglie dunque di accettare il contratto di lavoro proposto dal bambino e inizia l’analisi. In altre parole, tratta il bambino come tratterebbe un adulto che chieda, di primo acchito, di alleggerirsi di affanni soggettivi; spesso senza dare importanza o senza accorgersi, della lettura che il suo ambiente fa delle sue problematiche o, peggio, dei danni che con esse arreca agli altri. Come per l’adulto il primo contratto concreto e misurabile permette un nuovo migliore insight al soggetto e attraverso il completamento del primo contratto è possibile spesso che l’interessato risolva problemi assai più profondi e ristrutturi il proprio diritto di crescere psichicamente nel doppio okness positivo. Se il bambino, durante la prima seduta, esprime a parole difficoltà e rifiuto a ritornare dall’anali­sta è sbagliato imporgli/le una psicoterapia; in questi casi può essere utile in­vece chiedere ai genitori di fare loro una analisi e trovare insieme (con bam­bino e genitori) una attività che possa essere utile a sbloccare le resistenze del figlio.

Nella maggioranza dei casi è facile indurre un bambino a tornare in anali­si; se però ci si accorge che è veramente spaventato di restare solo con l’analista è possibile continuare almeno per i primi tempi una analisi con il barnbino e sua madre «se tu vuoi, puoi venire accompagnato dalla mamma, cosi mentre la mamma e io parliamo tu giochi».

Tornerò su questo tipo di intervento che è utile con bambini molto piccoli.

3. L’Analisi

Per i bambini la psicoterapia è un trattamento altamente intrusivo anche perché, di solito, è loro imposta dall’esterno (dalla famiglia, dalla scuola, dal medico organicista ecc.) e, per di più, per dei comportamenti che vengono considerati riprovevoli. Il bambino quindi giunge in terapia contro la propria volontà e con dei sentimenti negativi (colpa, vergogna ecc.).

Prima di prendere in analisi un bambino è necessario quindi assicurarsi che il trattamento personale sia necessario e sapere con sufficiente attendibilità che il piccolo abbia mutato l’atteggiamento nei confronti dell’analisi o quantomeno sia incuriosito dal rapporto con lo psicoterapeuta.

Bisogna assicurarsi inoltre che i suoi sintomi esprimano un problema vera­mente suo (derivante da un suo conflitto interiore anche se eventualmente reattivo all’ambiente familiare) e non siano piuttosto sintomi di un problema relazionale della famiglia. A volte infatti i sintomi presentati dai bambino so­no espressione dei problemi dei genitori, sia difficoltà coniugali, sia difficoltà con le famiglie di origine sia difficoltà psichiche e/o di inserimento sociale di uno o entrambi.

Viceversa altre volte genitori, apparentemente confusi e irritabili o sospet­tosi, soffrono (e di conseguenza spesso ne soffre la famiglia nel suo insieme) perché non sanno come gestire e far superare al figlio i suoi problemi psicolo­gici.

Per avere queste informazioni ritengo utile vedere dapprima i genitori da soli come coppia e vederli poi una o due volte insieme al figlio cosi da non iniziare l’analisi vera e propria senza una idea precisa di come il problema è vis­suto da tutti i familiari.

In altre parole il conoscere i genitori da soli e la triade genitori figlio «ma­lato» dà modo allo psicoterapeuta di osservare in atto il rapporto che è radice del G primitivo del soggetto che viene indirizzato all’analisi e di comprende­re la «spina patogena» del malessere espresso dai suoi comportamenti. In que­sto modo si possono meglio supporre i comportamenti del bambino nel suo ambiente e ciò è utile anche quando le problematiche comportamentali si presentano solo in ambienti extrafamiliari, ad esempio nella scuola.

In prima seduta i genitori desiderano parlare del problema che li preoccupa nel figlio. È compito dell’analista, pur rispettando questa esigenza, chiarire la situazione di coppia e di famiglia in cui il problema del bambino si è evidenziato. Spesso la coppia o il genitore presente (di solito la madre) rimane di primo acchito perplessa della piega presa dal colloquio e può anche risen­tirsene. Se però l’analista, in risposta a domande dirette, spiega la sua precisa necessità di conoscere l’ambiente emotivo in cui il bambino vive, evitando di far risalire alla famiglia il problema del paziente, e dimostra attenzione ai rea­li bisogni dei genitori (compreso quello di essere accettati con la sofferenza che provano e rispettati nel loro ruolo), la seduta diventa utile non solo dal punto di vista diagnostico ma direttamente per i genitori e, di conseguenza, in via riflessa per il figlio, anche se quest’ultimo non è presente.

Talvolta sembra che i genitori portino il bambino all’analista controvoglia, obbligati dalla richiesta scolastica o del medico curante, ed esprimano senti­menti di intolleranza e di rifiuto verso l’analisi e verso il bambino stesso, per­ché causa, con i suoi comportamenti, di tanto trambusto. Talvolta, approfon­dendo il discorso, l’analista si convince che i genitori, quando parlano in mo­do negativo del figlio, stanno riferendosi ad alcuni comportamenti oggettivamente negativi e/o disturbanti. Altre volte invece diviene evidente che il bam­bino è considerato dai genitori la dimostrazione del loro proprio fallimento o che su di lui sono proiettati dei problemi che non gli appartengono. In tutti questi casi l’analista, per prima cosa, fa notare con esplicite transazioni ai ge­nitori l’incongruenza per cui, affermando di non amare o addirittura di tro­vare antipatico, fastidioso o odioso il figlio, si caricano di notevole fatica e usano parecchio tempo per prendersi cura di lui/lei accompagnandolo dallo psicoterapeuta, sia pure dietro esplicita richiesta e conclude, o meglio, invita i genitori a concludere che forse fanno tutto ciò anche perché amano il figlio e sono dispiaciuti di vederlo in difficoltà. (L’intervento ovviamente è volto a ri­durre la tensione emotiva e a sollecitare il doppio okness sia nei genitori sia nel figlio che ascolta.)

Non esplicita invece, ma chiarisce a se stesso, continuando il colloquio, se tanta fatica è solo un «guadagno secondario» e se i genitori desiderano che il bambino cambi perché non dia più fastidio in famiglia o se invece vogliono che il bambino non dia più loro fastidio, ma non desiderano che cambi o che cambi del tutto, rimanendo cosi il «capro espiatorio» di un gruppo familiare non sano.

Il colloquio con i genitori è indirizzato non solo a chiarire questi aspetti ma anche a capire se e quanto una loro analisi personale possa essere utile per lo­ro stessi e per il figlio.

Ritengo che sia comunque importante che l’analista sia consapevole che il decidere di far aiutare il figlio/a per i problemi emotivi è spesso vissuto come un fallimento e una colpa e di solito porta un concreto aggravio ai doveri e al­le fatiche dei genitori. Per alleviare questo disagio è utile che l’analista faccia, come ho appena accennato, una alleanza terapeutica prima di tutto e fin dal primo incontro con i genitori, accettando inoltre di assumere la propria parte di responsabilità nel comune progetto di aiutare il bambino.

Qualora dall’incontro emergano problematiche personali in uno o in en­trambi i genitori diviene necessario proporre il trattamento psicoterapico an­che a essi (un trattamento che potrà poi essere realizzato sia con l’analista del figlio sia con altro analista). Di solito se la seduta (o le sedute) sono state por­tate avanti in modo corretto sono gli interessati stessi a chiedere di tornare; e comunque la proposta dell’analista è accettata.

Talvolta dal colloquio emerge in modo più o meno esplicito che la coppia ha problemi finanziari, di cui non vuole o non osa parlare. Credo etico che l’a­nalista sia consapevole della difficoltà dei genitori e, prendendone atto, la ge­stisca direttamente e paritariamente con gli interessati nel programmare l’in­tervento analitico più idoneo: al solo bambino, al bambino e a uno dei geni­tori, ai soli genitori (in uno studio privato o presso un ente pubblico).

Quando si prendono in analisi bambini molto piccoli o con problemi gra­vi è utile inserire nel piano terapeutico l’analisi in contemporanea dei geni­tori. La teoria AT spiega questo fatto a partire dalla constatazione che il su­peramento dei conflitti psichici trova di solito una resistenza interiore nello stato dell’Io G e che il successo di una psicoterapia parte dal fatto che il G precedente a essa sia modificato dalle nuove informazioni e dai nuovi per­messi acquisiti che il soggetto si dà durante l’analisi, in definitiva strutturan­dosi un G più adeguato alle sue esigenze a partire dai permessi e informazio­ni assunti dall’analista. Il bambino, oltre alle resistenze interne, deve affron­tare da parte dei suoi genitori e dei fratelli quotidiane difficoltà e resistenze esterne ai suoi nuovi comportamenti e al conseguente cambiamento delle consuetudini familiari; crescono cosi le sue difficoltà di gestione della propria analisi. Quando contemporaneamente a lui anche i genitori affrontano una psicoterapia analitico transazionale di solito capiscono meglio il percorso emotivo intrapreso dal figlio e le sue nuove reazioni e di conseguenza dimi­nuiscono le reazioni di insofferenza per i suoi nuovi comportamenti che mu­tano l’omeostasi familiare e le lamentele per la fatica che la sua analisi com­porta. Non è detto che il processo di autoconoscenza dei genitori debba es­sere ottenuto con una psicoterapia del profondo. Spesso anzi una analisi so­ciale, focalizzata sui problemi di coppia, può avere una azione altrettanto li­beratoria senza provocare eccessivi turbamenti nella struttura dei rapporti fa­miliari. Naturalmente il processo di ristrutturazione della personalità dei ge­nitori che in primo luogo dà loro un giovamento personale con l’aumento relativo di G nutriente e di B libero, permettendo inoltre di gestire meglio sia i rapporti di coppia sia quelli con i figli (per non parlare della aumentata ca­pacità nell’affrontare marachelle o errori di questi) facilita inoltre il processo psicoterapeutico nel bambino, permettendogli/le di confermare nel nuovo rapporto di reciproca comprensione o di complicità che si stabilisce con i ge­nitori il processo di liberazione psichica che sta intraprendendo in analisi. Ho già detto che ritengo opportuno che l’analisi dei bambini piccoli vada at­tuata solo quando il bambino/a presenti problematiche personali gravi. Ag­giungo che qualora le problematiche del bambino non siano particolarmente gravi e a esse si aggiungano problematiche di uno o di entrambi i genitori o serie difficoltà di coppia credo sia bene rimandare l’analisi del bambino a un secondo tempo e iniziare direttamente l’analisi dei problemi dei genitori (o del genitore che presenta problemi). Talora si dimostra invece utile inizia­re insieme l’analisi dei genitori e quella del figlio/a per evitare che nei primi tempi si abbia una crescita delle tensioni in famiglia. In un certo senso l’ana­lisi del bambino si traduce, in questo ultimo caso, quasi in «placebo psicolo­gico» per i genitori, permettendo loro di diminuire i sensi di colpa o l’irrita­zione o l’eccessivo senso di responsabilità verso il ragazzino/a. E’ invece ur­gente iniziare l’analisi diretta del bambino, anche sotto i sei anni, quando questi presenti sintomi seri di sofferenza psichica: nella parola (ritardi, bal­buzie gravi, mutismi che presi in tempo si risolvono con sorprendente rapi­dità), nei rapporti (instabilità grave o abulia), o segnali di inibizioni affettive in atto.

Non è strettamente necessario che il bambino sappia parlare per prenderlo in terapia. In caso di un linguaggio molto arretrato però trovo utile registrare i suoni o comunque confrontarsi con i genitori per comprendere le parole-fra­si e le altre deformate che spesso però hanno significato per chi conosce il bambino fin dalla nascita. Il mantenere la durata della terapia più breve pos­sibile con i bambini piccoli ha lo scopo di non lasciare tracce mnemoniche di una passata malattia psichica o comunque vissuti duraturi di okness negativo nel soggetto o nella famiglia. Ritengo comunque illusorio il pensare di muta­re i primi palinsesti di copione perdente in un bambino molto piccolo, senza intervenire sulle radici di quel suo copione e cioè senza indurre i genitori a luna maggior accettazione di se stessi e degli altri intorno a loro.

Con ragazzini più grandi e con preadolescenti, o comunque quando i ge­nitori rifiutino la psicoterapia personale, l’analisi sarà invece più lunga al fine di permettere una migliore cristallizzazione delle modifiche di palinsesto che si vanno via via formando per mezzo di essa. Sempre con bambini sotto gli otto anni la frequenza della analisi deve essere anche per l’analista transazio­nale di due volte alla settimana (o anche tre volte nei primi tempi), al fine di permettere al piccolo paziente di ricordarsi nel tempo che intercorre tra una seduta e l’altra, di quanto avvenuto in seduta e prevedere la seduta futura. La frequenza dell’analisi dipende dalla capacità di memoria a lungo termine del soggetto, onde permettere al bambino di conoscere l’analista nella continuità e nella sua realtà concreta di persona e di ricostruirne dentro di sé il discorso e i comportamenti come nuovo G ad aggiunta al G precedentemente incor­porato. La frequenza delle sedute, l’orario e la loro durata vanno stabilite te­nendo conto delle esigenze dei genitori (che dovranno accompagnare il bam­bino, oltre fare eventualmente loro stessi una analisi) e inoltre delle esigenze del bambino. Con i bambini, soprattutto dagli otto dieci anni in poi, molte volte una apparente insofferenza all’analisi può dipendere dal fatto che, pur rispettandone gli impegni scolastici, si sono scotomizzati i suoi impegni di gioco o quelli degli spettacoli televisivi preferiti. Nel decidere la struttura del­la analisi è dunque importante tenere conto non solo delle necessità dei ge­nitori e di quelle di studio del bambino ma anche di quelle del suo diverti­mento, spesso considerate poco importanti dalla famiglia e dallo stesso sog­getto.

Nella programmazione iniziale fatta con i genitori vengono stabiliti inoltre possibili incontri (di solito mensili) in cui genitori e analista possano discute­re sull’evoluzione dell’analisi del bambino, eventualmente alla presenza di quest’ultimo.

4. L’ora d’analisi

4.1. L'”ora”con il bambino.

L’ora d’analisi è classicamente configurata in cinquanta minuti esatti. An­che con il bambino questo intervallo di tempo è sufficiente a un colloquio utile senza divenire troppo faticoso. Con bambini molto piccoli è possibile ab­breviare il tempo a quarantacinque o anche quaranta minuti per rispettare il loro breve tempo di attenzione; con ragazzini di età maggiore invece i cin­quanta minuti possono sembrare persino troppo brevi. Comunque credo che con i soggetti in età evolutiva la seduta psicoterapeutica individuale non deb­ba durare meno di quaranta minuti e più di cinquanta minuti.

Quando, come nelle prime interviste, siano presenti anche i genitori si può allungare il tempo ma senza oltrepassare l’ora e mezzo. Anche con i bambini l’AT si struttura come un rapporto di contratto. A questo scopo, tenuto con­to della memoria relativamente breve del bambino, è utile esplicitare all’inizio di ogni ora la ragione dell’incontro e lo scopo della relazione analitica. Si po­trà fare ciò con naturalezza, informandosi sugli avvenimenti della settimana, e si innesterà l’inizio del gioco o del disegno o la ripresa di quanto fatto la vol­ta precedente senza che il discorso diventi una inutile requisitoria ma piutto­sto agganciando l’A del soggetto. Come ho già detto il lavoro analitico tran­sazionale con i bambini si inserisce in una paritarietà di rapporto pur nel rispetto della differenza di Io reale e quindi è nella realtà un particolare reparenting in cui l’analista si presenta velatamente come nuova figura genitoriale, libera da problematiche attuali e interessata al paziente da tutti tre i propri stati dell’Io, anche se le transazioni sociali dell’analista sono di preferenza da A e da B. Il bambino, a sua volta, è portato dalla sua stessa età e dal rapporto di accettazione che viene sperimentando ad affidarsi e a introiettare i comporta­menti, pensieri, sentimenti dell’analista.

Il reparenting inizia con lo stimolare nell’analizzato l’uso di A e di B: il B è stimolato con le transazioni B-B del gioco in comune e contemporaneamen­te l’A è stimolato dal fluire del colloquio tenuto principalmente in transazio­ni A-A secondo i noti interventi berniani. L’uso di transazioni semplici di vol­ta in volta B-B e A-A è volto a permettere al bambino di riconoscere come naturali modi di essere e di rapportarsi da persona adulta e di indurlo a interiorizzarle come permessi di attaccamento in G, fino a che inizi a viversi in un nuovo, più congruo palinsesto identificatorio nel doppio okness.

L’uso diretto di transazioni da G è scarso e serve per le informazioni sui va­lori e sui possibili ideali (gli uni e gli altri espressi sia in transazioni G-A sia eventualmente con confronti G-G), sui rapporti di rispetto reciproco tra per­sone anche al di fuori dell’analisi ovvero nella protezione e nei permessi che il bambino di volta in volta abbisogna, frequentemente solo con transazioni a li­vello psicologico (transazioni G-B). In altre parole l’analista partecipa ai gio­chi del bambino e anzi approfitta di essi per interrogare il bambino e rispon­dere, sia pure attraverso il simbolo del gioco, alle sue perplessità e ai suoi quesiti vitali. Talora, come si sa, l’analista agisce insegnando nozioni scolastiche, talora giocando a carponi, talora spara con la pistoletta o disegna scarabocchi a turno col suo piccolo cliente. L’analista decodifica i messaggi contenuti nei disegni e nelle azioni di gioco e interviene proponendo con le proprie mosse ludiche domande, specificazioni, confronti e cosi via, proprio come avviene all’interno dei colloqui AT con gli adulti. Il gioco infatti è per il bambino l’e­spressione di ridecisioni e la riprogettazione di sé e del proprio futuro; ovvero permette di suddividere e gestire nel rapporto gestaltico (come fa l’adulto nel­la tecnica delle sedie) per mezzo dei diversi personaggi del disegno e del vas­soio di sabbia o ancora dello scenotest (o con i peluches o con altro che trova a sua disposizione) le parti di sé coinvolte nel conflitto interiore che lo blocca. Il gioco è particolarmente utile, anzi ha la sua ragion d’essere in analisi in­fantile, perché chiama in atto il B del soggetto che è appunto anche il suo Io reale, cioè lo stato dell’Io centrale e specificamente identificatorio della sua personalità attuale. A questo livello è più facile giungere ad aiutare il bambi­no, che non si sente forzato in compiti a lui superiori o da valutazioni del suo agire, non solo perché il gioco è piacevole e lo/la induce a un maggiore coinvolgimento ma perché, focalizzando la persona del paziente nel suo Io reale, gli/le permette di «essere se stesso» e di «essere bambino». Quest’ultimo per­messo è importante perché nella psiche sana presuppone l’altro permesso esi­stenziale dell’età: il «permesso di crescere». I bambini crescono divenendo adulti, molti bambini però non hanno questo permesso e certe problematiche comportamentali, che sembrano di tutt’altro genere, prendono origine da ciò; altre volte l’essere bambino diventa un ruolo a cui il soggetto è confinato dal­le più diverse pressioni esterne (invidia, bisogno di aver qualcuno da proteg­gere e cosi via). Questi bambini, che presentano problemi affettivi o di inibi­zione affettiva della cognitività, pur apparendo particolarmente infantili (tan­to che si comportino in modo aggressivo, che confuso e timido) non hanno il permesso di «essere bambini» e, sotto comportamenti infantili (struttural­mente B1/G2) e difficoltà cognitive (A escluso), mascherano l’ingiunzione «non esistere».

L’analisi dunque, partendo dal gioco condiviso con un adulto, aiuta il ra­gazzino a distinguere tra il gioco e il gusto alla vita e a notare che quest’ultimo è possibile a tutte le età. Il fatto che l’analista, da un lato, si presenta come adulto e parla come tale con i genitori oltre che con lui mostrandosi a suo agio nella conversazione e sicuro delle proposizioni e, dall’altro lato – e fin dal pri­mo incontro anche alla presenza dei genitori, non solo assiste ai suoi giochi e se ne mostra interessato ma vi partecipa direttamente e si diverte, prendendo parte attiva a essi come faceva in precedenza nella conversazione, mette la ragazzetta/o a confronto con una novità importante che dapprima la/lo può turbare. Il turbamento in questi casi può anche esprimersi in aggressività: e il bambino sarà riportato al contratto di non fare o farsi male; ovvero si può esprimere in astensione e l’analista starà tranquillo ad attendere il superamen­to di questa piccola crisi, eventualmente continuando a giocare da solo. L’una e l’altra reazione possono essere originate dalla confusione tra ira e assertività e situarsi in reazioni copionali obbligate (non sempre del copione del sogget­to ma anche del copione familiare o sociale da cui proviene). La reazione emotiva è per l’analista transazionale un segnale di passività ben preciso, che viene preso in considerazione insieme agli altri tratti di copione che di mano in mano il soggetto presenta. Progressivamente, durante il tempo di prosieguo dell’analisi, col gioco in transazioni B-B o parlando con transazioni A-A ven­gono dati al bambino i permessi e le informazioni di cui necessita.

Torno a sottolineare che il rapporto B-B tra un adulto e un bambino è un rapporto di reparenting perché il bambino vive l’adulto, e particolarmente l’a­dulto che è in funzione direttiva (insegnante, analista…), come una figura genitoriale. Per questa ragione i messaggi, anche se colti nei più diversi stati del­l’Io dell’adulto, sono vissuti, a livello degli stati dell’Io, come messaggi o meglio permessi da G. Messaggi e permessi che, assorbiti a livello del colloquio profondo autoidentificatorio tra organi psichici, possono mutare il modello di identificazione, e, nel successivo passaggio dagli organi psichici al viversi dagli stati dell’Io, si esprimono da G nuovo, risultato dalla modificazione del precedente a partire dal nuovo modello e dal relativo nuovo colloquio, che permette un più ampio uso del proprio A e del proprio B.

Tornando alle prime battute dell’analisi infantile è bene che l’analista, do­po aver preso cura del problema emergente in B con transazioni di permesso non verbali e aver dato modo al bambino di sperimentare un nuovo tipo di rapporto con il proprio modo di vivere, spieghi in transazioni A-A che anche le «persone grandi» possono giocare e divertirsi e che anzi divertirsi è sano, sia che lo si viva nel giocare sia che lo si viva lavorando o studiando. L’analista rac­conta il proprio divertimento anche quando lavora; naturalmente lo fa se ciò corrisponde alla sua realtà (se cioè davvero si diverte nel lavorare e nello scri­vere o leggere o nel ritrovarsi con i colleghi), ricordando che i bambini colgo­no le ipocrisie degli adulti, anche se non sempre in modo consapevole, e rea­giscono a esse rinforzando il proprio copione.

Se l’analista e sufficientemente sano, gode delle proprie occupazioni e il bambino recepisce l’informazione nella transazione A-A a livello sociale e in­sieme percepisce in transazione G-B a livello psicologico il «permesso di cre­scere», collegato all’altro «permesso di godere» e al «permesso di pensare e di volere».

L’analisi col bambino, pur variando da soggetto a soggetto, per quanto ri­guarda gli specifici problemi che vengono presentati e quindi gli specifici sco­pi, si può riassumere in questi permessi d’«essere se stesso», «essere bambino», «crescere».

Un altro punto importante nell’analisi con i bambini è il loro possibile rap­porto con genitori che abbiano problemi emotivi; fatto questo molto fre­quente in bambini che abbisognano d’analisi e di cui ho più sopra parlato a proposito delle possibili situazioni di reciproca induzione alla patologia psico­logica.

L’analista, nel caso in cui i genitori del bambino, pur necessitando d’anali­si, non abbiano voluto affrontarla, si trova nella situazione delicata di aiutare il suo paziente a superare le simbiosi patologiche proposte nel nucleo familia­re. Questo è uno dei lavori più delicati e difficili della psicoterapia pediatrica, si tratta infatti di dare al bambino il permesso di esprimere, oltre ai sentimen­ti negativi, una valutazione consapevole dei difetti dei genitori, pur conti­nuando ad appoggiarsi a loro e a rispettarne gli aspetti positivi.

Si tratta cioè di stimolare in anticipo quel processo fisiologico di successivi e ripetuti Self-reparentings e relative redecisions che caratterizzano la crisi adolescenziale fisiologica. In definitiva il riconoscimento esplicito, insieme alle qualità positive, dei difetti e delle particolarità che non si condividono nei ge­nitori è fatto razionalmente in A, ma a partire dal permesso del G neo forma­to che conviene che tutti gli esseri umani hanno difetti e pregi ed è, di conse­guenza, vissuto in B senza sensi di colpa ed evitando reazioni di ribellione. Si rende così possibile un primo distacco dai genitori, che permette al soggetto la riappropriazione – o almeno il riconoscimento non coinvolto – delle loro parti positive.

L’analista, per facilitare il processo, spiega al bambino la compresenza di doti e difetti in ogni essere umano e aiuta il bambino a esprimere quanto non gli piace in altre persone che il bambino conosce o a partire dall’analista stes­so e dai compagni di scuola, per poi passare alle valutazoni positive. Le valutazioni, negative o positive che siano, sono proposte in modo leggero, quasi di gioco o concretamente, partendo dai giocattoli e identificando i vari perso­naggi della vita del soggetto negli animali più diversi. Si permette in questo modo al bambino di evitare imbarazzi o manipolazioni, e a convenire con l’a­nalista che difetti e debolezze umane sono presenti, oltre che nei bambini, an­che negli adulti, giungendo a trovare sotto i difetti i pregi connessi, fino a con­cludere che forse difetti e pregi sono il segno dell’«essere principi e principes­se», collegato al fatto che le persone possono, lungo tutta la vita, crescere in creatività e affetti, pensiero e volontà, sapere e amare.

Nella mia esperienza questo discorso, che naturalmente è proposto per sta­di e in più sedute, risulta molto liberatorio per i bambini. Facilita inoltre il rapporto paritario nel rispetto dei reciproci ruoli e della differenza di età; si in­troduce cosi il vero e proprio lavoro psicoterapeutico volto in primo luogo, come ho detto sopra, a che il bambino accetti il permesso di «essere bambi­no», e quindi di potersi divertite non solo con giochi ma anche con quanto la scuola gli/le propone, e inoltre l’altro permesso, in teoria insito nel primo, di “poter diventate grande”, tolte di mezzo le fantasie sulla età adulta e sulle sue fatiche e irrealizzabili perfezioni.

L’analisi col bambino naturalmente procede, seduta dopo seduta, sul con­tratto stipulato con il soggetto e nello stesso tempo è centrata su questi biso­gni fisiologici dell’età evolutiva, che sono di solito negati ai bambini che giun­gono dallo psicoterapeuta.

All’inizio di ogni seduta l’analista si informa sul come «sono andate le co­se», riferendosi al contenuto del contratto e sul come è stato portato avanti l’e­ventuale patto comportamentale deciso nella seduta precedente; riprende co­si e ricorda al bambino lo scopo del loro «giocare insieme» e, oltre a questo, lo aiuta a parlare di sé, anche se è forse ancora tanto piccolo da non saper parla­re in modo scorrevole. Nel quotidiano si forma a poco a poco una amicizia paritaria che permette al bambino confidenze e attaccamento come rapporto interumano.

Fin dalle origini nella psicoanalisi con i bambini è presente la divergenza d’opinione tra Anna Freud, che sosteneva che nel rapporto analista-bambino non esiste transfert, e Melanie Klein, che di rimando asseriva che il bambino esprime nel gioco i suoi «fantasmati» e che attraverso essi l’analista diviene espressione transferenziale dei genitori.

A mio avviso l’Analisi Transazionale classica col bambino fa sue entrambe le teorie, parlando naturalmente, piuttosto che di transfert, di rapporto copionale B-G. L’analista cioè è consapevole della doppia percezione che di lui/lei ha il bambino e ammette che costui riconosce la reale persona dell’ana­lista con i suoi pregi, difetti e modi di rapportarsi e, nello stesso tempo, la ri­legge (nella «magia» del gioco simbolico) nel ruolo copionale di figura identificatoria, sovrapponibile in questo alle figure anch’esse identificatorie dei ge­nitori (ma non solo alle loro); figure che gli sono di tramite alle richieste di adattamento per sopravvivere al meglio possibile nell’ambiente in cui si trova a crescere. Lo psicoterapeuta transazionale analizza i bambini, consapevole del proprio agire un rapporto di realtà e di essere vissuto nel rapporto «fantasmatico» del piccolo paziente come nuovo G, insieme nutritivo e normativo, che si interpone, si aggiunge o contrasta, attraverso il simbolo del gioco, con il G distorto già presente nel colloquio interiore del suo cliente.

L’Analisi Transazionale infantile si snoda cosi di volta in volta passando da un gioco (espresso nel disegno o nella azione comune o dal solo bambino con l’analista che assiste e commenta) a un parlare sul gioco o sulla realtà del bam­bino o ancora sulla passeggiata a due.

Talora per settimane o mesi il bambino ripete il suo gioco, ovvero riprende un disegno che puntigliosamente «migliora», talora racconta o disegna i suoi sogni, talora si lamenta e narra le sue disavventure o quelli che considera or­dini assurdi o sopraffazioni del suo ambiente.

L’analista risponde usando lo stesso gioco ovvero parole che il bambino sappia capire e lavorando ad aiutarlo a formare una propria consapevolezza e l’accettazione di sé e dell’altro con i rispettivi limiti. Spesso il problema com­portamentale o la diminuzione del rendimento scolastico sono, come si sa, sintomi della rimozione forzata di sentimenti basilari e particolarmente dell’i­ra, il bambino confonde la propria assertività con l’ira e spesso agisce la se­conda al posto della prima, ovviamente con il duplice risultato di comporta­menti non accettati e di una sempre più grave confusione.

Ben presto il paziente agisce il suo nuovo modo di rapportarsi fuori dall’a­nalisi e, a questo punto, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, a volte insorgono delle resistenze nella famiglia.

I fratelli, fino a quel momento indifferenti, possono esprimere la loro invi­dia per lo strano impegno privato da cui il soggetto torna tanto contento e possono chiedere di parteciparvi. Anche i genitori possono sentirsi esclusi, tanto più se, a loro volta, hanno problemi copionali irrisolti e chiedono dei nuovi contatti con l’analista o con la scusa di accompagnare o venire a ri­prendere il figlio cercano di prendere una parte del tempo di analisi di costui per «parlare all’analista» o, e questo è assai più grave per il soggetto quando si proponga troppo precocemente, possono decidere di sospendere il tratta­mento.

L’analista, di volta in volta, decide come comportarsi in questi casi a parti­re dal punto a cui Il processo psicoterapeutico è arrivato.

Credo che in ogni caso sia utile al paziente che l’analista incontri i genito­ri, naturalmente non durante le ore di analisi col bambino, decidendo di ve­derli soli o col figlio a seconda dell’età di quest’ultimo. Quanto più il bambi­no è piccolo, tanto meno può essergli negativo un incontro genitori-analista fatto senza di lui, in modo da proteggerlo dai possibili acting-out di invidia  B-B. Comunque ritengo importante che l’analista decida, prima di ogni inter­vista con i genitori, insieme al suo piccolo cliente cosa dire o non dire e che si adegui a quanto deciso anche se l’incontro è realizzato senza la presenza del bambino/a.

4,2. L'”ora” d’analisi con i genitori

Non è necessario che sia lo stesso analista a seguire figlio/a e genitori. Spes­so l’analista che si occupa di bambini non tratta adulti e viceversa. È utile in­vece che le due analisi siano coordinate e che i due analisti non solo siano in comunicazione tra loro ma che, per quanto possibile, discutano insieme en­trambe le analisi.

Quando è un solo analista a seguire tutti i familiari è di basilare importan­za che, passando dal figlio/a ai genitori e viceversa, non si lasci scappare infor­mazioni. Può anche accadere che i genitori cerchino di informarsi del figlio ovvero giochino a dirsi informati per poter sondare l’analista. Il gioco, in una particolare variazione di «ti ho beccato», può essere segno di gelosia dei lega­me figlio-analista o di inferiorità e invidia nei confronti di quest’ultimo che riesce là dove loro sentono di aver fallito. È bene che l’analista, quando abbia ragione d’aspettarsi questo tipo di reazioni, si metta d’accordo con un collega che possa analizzare il figlio o, viceversa, i genitori (o il genitore che presenta le maggiori problematiche).

Quando il bambino è molto piccolo e non presenta problemi particolarmente gravi ritengo utile, come ho detto più sopra, che siano i soli genitori a intraprendere una analisi o a fare alcuni colloqui a indirizzo psicopedagogico con analisti transazionali del campo del’educazione, e ciò anche quando nessuno dei due presenti particolari disturbi psicologici. L’analisi dei genitori in questi casi serve a metterli in grado di seguire direttamente il loro bambino senza che si interpongano nuove figure all’interno delle relazioni familiari.

In altri casi, particolarmente quando si ha l’impressione di una atmosfera familiare disturbata in toto, si unisce all’analisi del figlio il lavoro con i geni­tori, dosando la frequenza degli interventi di questi ultimi, in base alle loro specifiche necessità.

Tanto l’analisi clinica come il rapporto analitico-sociale sono incentrati sui problemi e sulla vita dei genitori, evitando i problemi del figlio.

L’analista spiega ai genitori l’utilità per loro e per il figlio stesso della loro più approfondita conoscenza di sé che permette un nuovo modo di amare e accertare se stessi e modi nuovi con cui trattare il bambino/a.

È imprescindibile comunque per la validità dell’analisi che i genitori af­frontino il tragitto psicoterapeutico per averne un guadagno personale al di fuori del loro ruolo genitoriale e che formulino un contratto d’analisi che ser­va a migliorare la loro propria vita stabilendo e conseguendo ciascuno un pro­prio vantaggio personale anche quando, venendo insieme in analisi, si pro­pongono inoltre un approfondimento esistenziale e psicologico del loro esse­re coppia. Quando i genitori non presentino problematiche personali particolarmente gravi, l’analisi si effettua possibilmente in gruppo. Sono di eguale utilità i gruppi di AT clinica o di AT sociale aperto a tecnici e insegnanti oltre che ad adulti genericamente interessati al campo dell’educazione. Natural­mente, quando invece i genitori abbiano disturbi psicologici o gravi disturbi di coppia, vanno indirizzati ai soli gruppi di analisi clinica.

Nell’analisi in gruppo è più facile che i «genitori» mantengano il proprio discorso sulle problematiche personali al di là dei loro problemi con il figlio, aiutati in ciò dagli altri partecipanti. Ciò non significa che i genitori non pos­sano parlare delle loro difficoltà di rapporto con il figlio ma che di tali diffi­coltà sono focalizzate solo le problematiche affettive e comunicative persona­li di cui si ricercano sia le origini affettivo-storiche (analisi clinica) sia i modi di superarle (sia analisi clinica, sia analisi sociale). Il contratto di analisi è su uno specifico blocco comportamentale o sulla soluzione di problematiche per­sonali attuali (ovvero nel caso dell’analisi clinica sulle problematiche di origi­ne remota), comunque estranei al problema presentato dal figlio.

In altre parole, qualsiasi sia la metodologia analitico transazionale scelta, il genitore è aiutato nei suoi bisogni di persona e non come genitore. La discus­sione sull’andamento dell’analisi del figlio avviene in altra sede, spesso anzi in presenza del figlio stesso ed è rigorosamente distinta sia dal tempo dedicato al­l’analisi dei genitori sia dal tempo dedicato all’analisi del bambino.

4.3. Le riunioni di informazione periodica.

Ho già accennato alla necessità di stabilire, fin dall’inizio dell’analisi con un bambino, riunioni vuoi mensili, vuoi ogni due mesi, vuoi con frequenza va­riabile per informare i genitori dell’analisi del figlio. Questo sistema è teorica­mente assai lontano dalla norma di altre forme di analisi e si basa sul nucleo teorico di base della AT, che appunto è una analisi «transazionale», e che cioè legge la persona nei suoi rapporti familiari e ambientali.

Il rapporto mensile con i genitori (ed eventualmente con altri in contatto col soggetto come insegnanti o tutori) è un colloquio a scambio reciproco di informazioni, volto ad aumentare la progettazione reciproca tra coloro che hanno la responsabilità del bambino in modo che le decisioni siano fatte in équipe. Un ulteriore risultato secondario è quello della diminuzione delle ten­sioni affettive copionali in genitori ansiosi o competitivi.

Il colloquio inoltre dà modo all’analista di tener separati e proteggere i tem­pi di analisi del bambino e di mantenere l’analisi dei genitori solo sulle loro problematiche personali.

5. Conclusione della analisi

L’Analisi Transazionale, come si sa, può dirsi conclusa solo quando oltre ad aver raggiunto lo scopo stabilito nel contratto, i mutamenti che questo presu­meva siano divenuti a sufficienza naturali per gli analizzati.

Le prime intuizioni di aver raggiunto un sufficiente superamento della pro­blematica per cui il bambino è stato inviato in analisi si formano nell’analista dal primo cogliere piccoli segni, quasi non verbalizzabili: mutamenti delle rea­zioni nel disegno e/o al gioco durante l’ora di analisi, segnali di libertà, che non sono legati solamente alla abitudine dell’accogliente rapporto d’analisi; le conferme sull’esattezza di quanto percepito cominciano più tardi da osserva­zioni sul comportamento del figlio fatte dai genitori durante le riunioni di informazione e, se si sia instaurata una comunicazione tra scuola e analista, dai commenti degli insegnanti.

La conferma definitiva è data poi dal ragazzino stesso, che ormai si confida e racconta di sé narrando di situazioni nuove e piacevoli, di incontri interes­santi e cosi via, e il cui comportamento si fa più sciolto, anche in seduta, in modo sempre più evidente a mano a mano che si identifica nelle conquiste ot­tenute durante la progressiva cristallizzazione di esse.

Il sintomo, per cui il bambino è stato inviato in analisi, è quasi completa­mente scomparso; le relazioni interpersonali con gli altri bambini e con gli adulti sono migliorate e cosi il suo rendimento scolastico. Anche i genitori che hanno scelto un percorso analitico per se stessi (o quello di loro che lo ha fatto), danno in via indiretta segnali del miglioramento del figlio, mostrandosi più sereni e più interessati che in passato al proprio lavoro analitico e comin­ciano a riportare e a rallegrarsi delle conquiste personali e della nuova atmo­sfera che sta formandosi in famiglia. D’altronde anche i genitori che invece non sono stati seguiti in analisi personale parlano delle proprie più facili rela­zioni familiari ed extrafamiliari nelle «riunioni di informazione», dimentican­dosi di parlare del trattamento del figlio e, se ricondotti a esso, parlano del bambino con nuova compiacenza e fiducia.

A questo punto l’analista si trova a decidere se continuare ancora con la cri­stallizzazione (che nel bambino è di solito più breve che negli adulti) o se si possa procedere direttamente ad allungare i tempi intercorrenti tra le sedute per preparare il bambino alla separazione o se, ancora (ad esempio quando la sede di analisi sia difficile da raggiungere e comporti un notevole aggravio al­l’organizzazione familiare), non sia il caso di interrompere definitivamente senza particolari indugi. La decisione è presa in base a diversi dati: il tipo di problematiche presentate al suo arrivo in analisi dal bambino, la strutturazio­ne della famiglia e il posto che egli/ella occupa in essa, il suo inserimento sco­lastico. Queste variabili sono prese in considerazione per prevedere una possi­bilità di appoggio futuro per il bambino al di fuori della sede analitica o al­meno la possibilità che la famiglia, o se preadolescente, il/la paziente in prima persona possa chiedere di contattare ancora l’analista.

La decisione finale, come era già stato per l’inizio della analisi, è presa con la collaborazione del figlio e dei genitori. E importante infatti che fino in fon­do il bambino si senta soggetto attivo della sua analisi e che i suoi desideri in proposito siano rispettati. Talvolta, raggiunta una prima diminuzione della problematica dapprima lamentata, i genitori, che in precedenza sembravano tanto interessati sia per se stessi che per il figlio da non sentire fatica né ragio­ni, si rendono improvvisamente conto dell’aggravio all’organizzazione fami­liare provocata dall’analisi. Altre volte è il bambino a dimostrare improvvisa­mente di non essere più interessato alle sedute analitiche, arrivando in ritardo, chiedendo di accorciare il tempo di analisi o di portare con sé amichetti o fratellini per giocare insieme.

Se l’analista è convinto che il miglioramento del bambino può essere dura­turo, può in entrambe queste situazioni iniziare a diradare le sedute (ad esem­pio mutandole da bisettimanali a settimanali o a ogni dieci giorni o quindici­nali) e decidere con i genitori e il figlio, di chiudere l’analisi nel più breve tem­po compatibile a una sufficiente cristallizzazione dei risultati ottenuti.

Se però teme che il tempo di analisi sia stato troppo breve per assicurare che il processo di crescita psichica possa continuare euritmicamente evitando i fu­turi problemi derivanti dalla crisi adolescenziale che attende il soggetto, o se,per le più diverse situazioni anche indipendenti dal bambino, teme che una fine immediata della psicoterapia possa risultare prematura fa presente il pos­sibile problema futuro ai genitori (presente quando è possibile il figlio) e pro­pone le possibili linee di azione atte a ridurre il pericolo di ricadute. Parla dun­que della possibilità di continuare ancora per un certo tempo l’analisi (even­tualmente come ho detto più sopra diluendone la frequenza), o propone di interrompere dopo adeguata cristallizzazione (breve anche in questo caso) l’a­nalisi del figlio, prolungando l’analisi dei genitori (o del genitore) per un ul­teriore periodo sufficiente a terminarla o ancora propone dei colloqui di con­trollo a quattro (analista, genitori, figlio), programmandoli a uno o a più me­si di distanza tra loro e cosi via. Ritengo che nell’analisi con i bambini sia co­munque utile programmare, ed eventualmente fin dall’inizio, i colloqui di controllo da tenersi con i genitori accompagnati dal figlio ogni due o tre me­si a partire dalla fine del percorso psicoterapeutico, in questi incontri si deci­derà poi, se nel caso, di fare una seduta con il gruppo familiare unito o di di­videre l’ora di colloquio in un tempo a tre e un tempo per il figlio, o se ri­prendere una breve analisi del figlio o dei genitori e del figlio o dei soli geni­tori.

Sono molto favorevole a tali colloqui di controllo mensili o tenuti ogni due/tre/sei mesi: essi permettono una continuazione del dialogo senza indur­re sensi di inadeguatezza o fatiche eccessive e permettono una eventuale ri­presa di brevi interventi, qualora questi anche dopo parecchio tempo si di­mostrassero necessari.

Di solito questa procedura è rassicurante sia per i genitori che per il bam­bino, che anzi evita le possibili crisi di paura abbandonica e di fallimento, e si traduce in una amicizia sana tra famiglia nel suo interno e tra famiglia e ana­lista, con la conseguenza di una nuova crescita psichica di tutti (compreso l’a­nalista) in situazione di doppio okness.

Altri articoli e libri