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ARTICOLO Dolores Munari Poda: Un po’ vento e un po’ lupo
Dolores Munari Poda

Per gentile concessione della Società Italiana di Metodologie Psicoterapeutiche e Analisi Transazionale (SIMPAT), l’Associazione I.T.A.C.A. riporta qui l’articolo di Dolores Munari Poda  “Un po’ vento e un po’ lupo: la diversità come strumento di sopravvivenza nei bambini”, pubblicato nel numero 59, 22/2010, pag 43-56 della Rivista italiana di Analisi Transazionale e metodologie psicoterapeutiche.

UN PO’ VENTO E UN PO’ LUPO:

LA DIVERSITÀ COME STRUMENTO DI SOPRAVVIVENZA NEI BAMBINI

di Dolores Munari Poda

 

Sandor Marai usa meravigliosamente la parola “diverso”.

Konrad non diventerà mai un vero soldato.

Perché? Chiese spaventato il ragazzo. (…)

Perché è un uomo diverso.

Fu solo parecchi anni dopo, quando il padre non era più in vita, che il generale arrivò a comprendere quella frase. (Marai, 1998, p. 49)

“Diverso”, come ad esempio, Tistou, il protagonista del racconto di Maurice Druon, Il bambino dai pollici verdi.

Il primo giorno di scuola Tistou tornò a casa con le tasche piene di zeri. Il secondo giorno rimase a scuola due ore in più, per punizione, rimase cioè due ore in più a dormire in classe. Alla sera del terzo giorno il maestro consegnò a Tistou una lettera per il padre. In quella lettera il Signor Padre ebbe la pena di leggere le seguenti parole: “Signore, il vostro bambino non è come gli altri. Ci è impossibile tenerlo in classe”.

(Druon, 1995, p. 29)

Il bambino detto “diverso” è un bambino particolare, un poco “strano”, non catalogabile, eccentrico, “a parte”, fuori misura, come ad esempio, Hélène Grimaud, o Agotha Christof o Herta Mueller o Maurice Bejart o John Neumeier o Vladimir Ashkenazy o Oliver Sacks quando erano piccoli.

Probabilmente il diverso è un bambino “troppo”. Riflettendo sulle esperienze infantili e sulla particolare complessità dei rapporti familiari, Maria Teresa Romanini usava definire “copionale” l’avverbio “troppo”: troppo silenzioso, troppo timido, troppo sognatore, troppo vivace, troppo isolato, in qualche modo speciale, non ordinario, imprevedibile nel proprio personale stile di sopravvivenza.

Ma come si sopravvive all’infanzia?

Michele Mari ha scritto Tu, sanguinosa infanzia sulla base di un pensiero chiaro e inequivocabile rispetto a questa difficile stagione della vita.

I bambini reggono fatiche psicologiche inimmaginabili, impostano indagini faticosissime per scoprire le preferenze dei loro genitori, si impongono scelte e rinunce per assomigliare almeno un poco a quel bambino ideale, ordinato, pulito, diligente, intelligente, simpatico, veramente “bravo” che racchiude nella definizione medesima l’antico sogno pedagogico di generazioni di genitori.

Come ricordava Fanita English in una conversazione praghese ai margini della conferenza EATA del luglio 2010 – in questo vicina al pensiero di Barrie Simmons e al concetto di spoiled children di Franco Borgogno e Dina Vallino – spesso accade che i ragazzini attraversino profonde solitudini e vivano angosce di morte disperatamente tentando di essere amati, accettati o almeno tollerati dai loro genitori nonostante evidenti dissonanze rispetto alla programmazione educativa familiare.

E, comunque, viene spesso da dare ragione a Ondine Khayat, quando scrive La vita non è una cosa da bambini (Khayat, 2010, p. 51).

Quanto “spazio” può occupare un bambino nel paese degli adulti?

Secondo Toni Morrison lo spazio di uno scatolone.

I bambini in scatola

Toni Morrison, Premio Nobel 1993 per la letteratura, è autrice – con il figlio Slade – di un libro apparentemente per bambini perché dei libri per bambini ha il formato imponente e la stampa gigante.

Il titolo del libro nella traduzione francese è Ma liberté à moi. Il titolo originale è The Big Box.

La storia racconta di come tre ragazzini, Patty, Mickey e Lisa, per motivi diversi ma riconducibili, di fatto, ad una unica ragione, vivano chiusi in grandi scatoloni con tappeti, tende e persino una poltrona piena di biglie.

Alla porta, però, tre grandi lucchetti.

“Certo, è carino li dentro”, commenta chi narra.

Ci sono grandi finestre con degli scuri perché la luce non entri.

C’è anche un‘altalena, c’è uno scivolo e ci sono letti costruiti su misura.

Ma la porta dall’interno non si apre.

Patty, Mickey e Lisa sono di fatto tre bambini in scatola.

I genitori vengono a trovarli tutti i mercoledì sera. Ed è incredibile quel che portano! Pizza, Lego, e una televisione a colori. Per Natale hanno ricevuto un quadro con il cielo dipinto, una farfalla sotto vetro, una specie di acquario con pesci di plastica perché durino tutta la vita.

Patty, Mickey e Lisa sono a tutti gli effetti bambini prigionieri.

Come mai vivono “in scatola”?

Ecco le loro storie personali.

Cominciamo da quella di Patty.

La voce narrante è di Toni Morrison.

Prima Patty abitava in una casetta bianca, con una porta che si apriva anche dall’interno. Ma si divertiva troppo a scuola e faceva impazzire gli adulti, chiacchierava in biblioteca, cantava in classe, e andava in bagno anche quattro volte di seguito. Correva nei corridoi, non voleva giocare con le bambole, e quando

c’era il saluto alla bandiera si comportava malissimo.

Un giorno i professori, che le volevano bene, si riunirono per trovare una soluzione. Pensarono, pensarono a lungo, discussero all’infinito, finché presero una decisione.

“Patty – dissero – sei una ragazzina terribilmente simpatica e hai delle qualità fantastiche. Ma devi imparare i tuoi limiti per trovare un posto nel mondo degli adulti.

Vedi, il regolamento è scritto alla lavagna, quindi è inutile che te lo rileggiamo. La nostra opinione, nostra e dei tuoi genitori, e che tu semplicemente non sappia far uso della tua libertà”.

Patty non reagì e, per evitare i loro sguardi, abbassò il capo. Ma sentì le loro parole e gli occhi posati su di lei. Ed ecco cosa rispose:

“Metto a posto i calzini e mangio le rape e il sabato mattina cambio le lenzuola. Mi allaccio le scarpe e mi lavo il collo. Le mie unghie sono pulite. Anche i passeri pigolano e i conigli saltano e i castori rosicchiano gli alberi quando ne hanno bisogno. Non voglio essere maleducata: ho voglia di essere buona, ma tengo molto

alla mia libertà. So che siete intelligenti e che credete di agire per il mio bene, ma se

uso la mia libertà secondo le vostre idee, non sarà più la mia libertà. ”

A questo punto la baciarono con a?etto e la misero in un grande scatolone di cartone.

C’erano tappeti, tende e una poltrona a pera piena di biglie e, alla porta, tre

grossi lucchetti.

Certo, è bello: ci sono grandi finestre con gli scuri per non far entrare la luce. E

anche un ’altalena, uno scivolo e un letto a baldacchino, ma la porta non si apre dall’interno.

I genitori vengono a trovarla il mercoledì sera ed è incredibile quel che le portano: una bambola Barbie, della Pepsi, un telefono rosa da principessa e uno stereo. A Pasqua ha ricevuto un paio di jeans nuovi con le Nike e una maglietta delle Spice Girls, pasta di mandorle e dolci, e anche un barattolo con della vera terra.

Poi c’è la storia di Mickey.

Mickey abitava al 18° piano e c’erano due ascensori per salire da lui. Ma si divertiva troppo per strada durante il giorno e questo infastidiva gli adulti.

Un giorno i vicini che lo amavano molto si riunirono per trovare una soluzione.

Pensarono a lungo, discussero all’infinito e poi presero una decisione.

“Mickey – gli dissero – sei un ragazzino simpaticissimo con un bel futuro, ma a noi e ai tuoi genitori sembra che tu non sappia far buon uso della tua libertà.

Mickey non reagì ed evitò i loro sguardi abbassando la testa, ma sentì le loro parole e gli occhi posati su di lui.

Rispose: “Eppure mi pettino e non mi drogo. E tutti i giorni passo l’aspirapolvere. Do da mangiare al criceto e innaffio le piante e una volta alla settimana stendo la biancheria. ”

(..)

Allora guardarono Mickey con aria comprensiva e lo misero dentro un grande cartone.

Lo scatolone era fornito di ogni comfort, e i suoi genitori venivano a trovarlo ogni mercoledì sera, appena dopo lo spettacolo, con frutta candita, un frisbee, dei fumetti, molte macchinine.

Per il suo compleanno ha ricevuto una bella torta comprata dal pasticcere e un pallone da basket con la dedica di un campione e un disco con vere grida di gabbiano incise.

La terza storia è quella di Lisa.

Lisa abitava in una piccola casa di campagna. Si divertiva nei prati tutto il giorno e questo faceva impazzire i grandi.

Lisa lasciava che le galline covassero le uova e gli scoiattoli saltassero sugli alberi da frutto…

I grandi non ne potevano più.

Così un giorno i vicini che le volevano molto bene, tennero consiglio per trovare una soluzione. Pensarono e pensarono, discussero a lungo, finché presero una decisione.

“Lisa – le dissero – sei una bambina meravigliosa e non vogliamo cacciarti via”.

(…)

Diedero a Lisa un buffetto sulla guancia e la misero in un grosso cartone, nonostante lei si fosse difesa dicendo che da tre anni portava un apparecchio per i denti e non mangiava biscotti alle noccioline. “Ho imparato le frazioni e dato il biberon agli agnellini che non riuscivano a succhiare dalla mamma. ”

Anche i genitori di Lisa la andavano a trovare ogni mercoledì sera.

Le portavano pop-corn e crackers e il mikado e delle bambole che avevano già un nome. Per la sua festa ha ricevuto la sua prima anatra ripiena preparata da un vero cuoco di ristorante e poi una piccola telecamera con un film dove si vede scorrere un fiumiciattolo.

Patty, Mickey, Lisa sono bambini in scatola.

Sono i bambini che i grandi giudicano “impossibili”, troppo vivaci, troppo attivi, troppe domande, troppo movimento, troppe iniziative, troppo rumore, troppa personalità, tanto per intenderci “diversi”. Per farli diventare “uguali”, li curano con opportune gocce meravigliose o miracolose pastigliette tipo caramelline dai nomi esotici e dai colori delicati.

Il loro effetto è abbastanza simile all’essere alloggiati in una scatola. Sono scatole che non si vedono, ma bloccano o limitano i bambini nell’espressione della loro naturalità.

Le famiglie in scatola

Ci sono anche famiglie in scatola, per esempio quella di Thomas, il protagonista di un romanzo di Guus Kuijer.

Thomas cura un diario che si chiama Il libro di tutte le cose, dove annota gli eventi significativi e le sue riflessioni in merito.

I bambini delle famiglie in scatola sopravvivono in modi molto particolari.

Thomas, oltre a tenere un diario degli eventi, prende nota anche delle sue conversazioni con Dio e con Gesù, frequentazioni favorite dal fatto che l’unico libro permesso ufficialmente, citato costantemente e letto giornalmente dal padre alla famiglia riunita, è la Bibbia.

Thomas ha nove anni e, a casa sua, le finestre ci sono, anzi hanno un ruolo molto particolare.

Infatti, il narratore ci informa del senso delle finestre per Thomas.

Thomas guardò fuori dalla finestra per pensare, perché senza una finestra non riusciva a riflettere. O forse era il contraria: bastava una finestra perché automaticamente cominciasse a pensare. Poi scrisse: “Da grande diventerò felice.” (Kuijer, 2004, p. 9)

Thomas ha una famiglia così composta: il padre è una specie di “giusto arrabbiato”, si considera infallibile, piega tutti ai suoi comandi, la madre è una donna triste che subisce la sua sorte, Margot, la sorella liceale è dotata, secondo Thomas, del cervello di una gallina.

E’ una famiglia a rischio di follia maniacale a seguito della assurda forma di devozione ai sacri testi imposta dal genitore.

Thomas si sforza di seguire i riti e le preghiere del luogo di culto domenicale, anche se non sempre ne comprende il significato.

Una domenica gli capitò di cantare con i fedeli una strofa che, al suo orecchio, suonava così:

“Oh Signore coi ragni nei cieli, abbi miseri ricordi di noi seccatori.”

La cantò particolarmente concentrato, ma

sulla strada verso casa Thomas notò che il papà era arrabbiato per qualcosa. Non parlava e guardava dritto davanti a sé. A tavola, dopo la preghiera, disse: “Thomas, in piedi”.

Thomas stava giusto per ficcarsi in bocca una forchettata di patate e piselli. La posata rimase sospesa a mezz’aria. “In piedi?” domandò.

”In piedi” disse il papà.

“Perché?” domandò la mamma preoccupata.

“Perché lo dico io” rispose il papà.

“Ah, ecco perché” disse Margot.

Thomas posò la forchetta sul piatto e si alzò. (…)

“Fammi sentire cosa cantavi durante la litania” disse il papà con sguardo impassibile.

Thomas guardò la mamma.

“Guardami in faccia e canta”, incalzò il papà.

Thomas inspirò e cantò: “Oh Signore coi ragni nei cieli, abbi miseri ricordi di noi seccatori”.

Poi calò un silenzio di tomba.

La mamma disse: “Ha solo nove anni. Non lo fa apposta”.

Il papà taceva. Posò con solennità la forchetta e il coltello sul piatto e si alzò lentamente. Diventò più alto, sempre più alto, finché con la testa superò la lampada sopra il tavolo.

Tutti gli essere viventi della Terra trattennero il fiato. Il sole si oscurò e il cielo si accartocciò su se stesso.

“Cos’hai intenzione di fare?” gridò la mamma con voce acuta. Balzò in piedi e tirò Thomas verso di sé.

“Levati di mezzo, donna” disse il papà con voce da gigante. “Sto parlando con tuo figlio”.

Ma la mamma allontanò Thomas ancora di più dalla tavola e gli mise un braccio attorno alle spalle.

A quel punto la mano del papà scattò all’improvviso e mollò una schiaffo sonoro sulla guancia della mamma.

Lei barcollò all’indietro e lasciò andare Thomas.

Gli angeli del cielo si coprirono gli occhi e scoppiarono in singhiozzi, come fanno ogni volta che un uomo picchia sua moglie. Una profonda tristezza scese sulla Terra.

“Papà” bisbiglio Margot.

“Taci! ” tuonò il papà. “Thomas, vai di sopra. E non dimenticarti di portare il cucchiaio”.

Thomas si voltò, andò in cucina e prese il cucchiaio di legno dall’appendimestoli. Poi sali di corsa le scale e andò in camera sua. (…)

Dopo che Thomas ebbe guardato nel nulla per un’eternità, sentì i pesanti passi del papà sulle scale. Bum, bum, bum, bum. (…)

Le botte ebbero inizio. Il cucchiaio di legno vibrò nell’aria…

Pam!

Il dolore gli tagliò la pelle come un coltello.

Pam!

All’inizio Thomas non pensò a niente, ma dopo il terzo colpo gli si formarono delle parole nella testa.

Pam! Dio…

Pam! lo…

Pam! punirà…

Pam! terribilmente…

Pam! con…

Pam! tutte…

Pam! le…

Pam! piaghe…

Pam! d ‘ Egitto…

Pam! perche’…

Pam! lui…

Pam! ha…

Pam! picchiato…

Pam! la…

Pam! mamma…

La frase finì, le botte continuarono. Per un attimo nella sua testa ci fu il vuoto. Ma poi ritornarono parole terribili che non aveva mai pensato prima di allora:

Pam! Dio…

Pam! non…

Pam! esiste…

Pam! Dio…

Pam! non…

Pam! esiste…

Quando finalmente le botte cessarono e Thomas si fa tirato su le mutande e i pantaloni sul sedere infuocato, seppe con certezza che a forza di cucchiaiate il Padre Onnipotente era stato estirpato da

lui per sempre. (…)

Thomas rimase in piedi perché sentiva il sedere come un puntaspilli. Guardò fuori dalla finestra e sussurrò:

“Per favore Dio, puoi esistere, per favore? Fa’ che tutte le piaghe d’Egitto lo colpiscano, per favore. Ha picchiato la mamma e non era la prima volta! “

Dio tacque in tutte le lingue. Gli angeli cercarono di asciugarsi le lacrime, ma i loro fazzoletti si inzupparono tanto che perfino nei deserti cominciò a piovere. (Ibidem, p. 17-18)

Non era facile la vita di Thomas. Dio era stato eliminato in quanto sordo e muto. Restava Gesù, e quando era solo e sperduto Thomas parlava con lui.

“Gesù?” chiamò Thomas. Ma di Gesù non c’era traccia.

“Sono qui” disse Gesù.

“Dove? ” domandò Thomas. “Non ti vedo”.

“Sfido io!” esclamò Gesù. “Hai gli occhi chiusi”.

Thomas apri gli occhi. Gesù era in soggiorno, davanti alla cappa del camino. (…)

“Devo dirti una cosa” disse Thomas.

“Spara” disse Gesù.

“Dio Padre non è semplicemente sparito ”disse Thomas. “E’ morto. Te lo dico in tutta sincerità”.

Gesù rimase di stucco e per un attimo non riuscì a proferire parola. “Non dirai mica sul serio! ”

Thomas annui. Gli dispiaceva molto per il Signor Gesù, ma occorreva dire la verità.

“Ma come è potuto accadere?! ” esclamò Gesù.

“L’hanno cacciato fuori di me a forza di botte ” disse Thomas. “E poi è morto,

perché non poteva stare fuori di me.”

Gesù si mise a riflettere. Poi annui e sorrise sconsolato. Ovviamente era andata così. Senza Thomas niente poteva esistere. (…)

Gesù salutò Thomas con la mano e svanì. Thomas gli rispose agitando la mano. (Ibidem, p. 71-72)

Ci furono altre conversazioni e altre apparizioni. In un altro momento complicato Gesù si palesò con il suo abito bianco da deserto e un sacco di sabbia del luogo.

“Ciao Thomas!” domandò. “Tutto ok?”

“No” disse Thomas.

“Che cosa c’è?” domandò Gesù.

“Tante cose” rispose Thomas. “E a essere sinceri, non è che tu ci aiuti chissachè”.

Thomas vide che il Signore si era offeso, ma non gliene importava niente.

“Ma come!” esclamò il Signor Gesù. “Cosa mi tocca sentire? lo ha liberato l’umanità! ”

“Liberato? ” domandò Thomas. “Da che cosa, se posso chiederlo?”

Il Signore si accigliò. “Ma dai. Questo lo sai bene. ”

“Io non ho niente a che fare con questa storia” disse Thomas.

Il Signore a questo punto rise a squarciagola. Dai suoi denti era chiaro che non doveva temere il dentista. “Ok, ok” disse il Signore. “Lo scoprirai quando sarai più grande”.

“Se lo dici tu” disse Thomas.

Il Signor Gesù guardò Thomas negli occhi e posò la mano sulla sua testa. “Tu sei forte, Thomas” disse. “Sei forte perché sei buono, te lo ricorderai? Quassù siamo fieri di te. Mi credi?”

“Sì, Signor Gesù” disse Thomas.

“Chiamami pure Gesù” sorrise il Signore. “In e?etti, tu sei il mio bambino preferito. Quasi quasi ti prenderei con me”.

Non è che aiutasse un granché, ma era carino che venisse a fare due chiacchiere di tanto in tanto. “Mi sembra un’idea tostissima, Gesù” disse Thomas. E si addormentò. (Ibidem, p. 49)

Thomas non disse mai a nessuno che ogni tanto conversava con Gesù. Lo considerava un fatto molto privato e confusamente intuiva che gli adulti lo avrebbero giudicato quanto meno strano, magari

anche matto. Non lo disse mai a nessuno tranne che alla Signora Van Amersfoort sua vicina di casa che tutti dicevano essere una strega, e che quindi poteva capire. Lui un giorno l’aveva aiutata a portare la borsa della spesa.

“Appoggiala pure qui” disse la signora Van Amersfoort. Thomas la vide in piedi in cucina. “Gradisci forse un bicchiere di aranciata rossa?”

“Grazie signora” disse Thomas. Il cuore gli batteva così forte che pareva uscirgli dal petto, perché la signora Van Amersfoort era una strega e la sua cucina, quindi, era una cucina stregata. (Ibidem, p. 22)

Nella casa della signora c’era anche un affettuoso gatto nero. Thomas ebbe un’aranciata rossa e la signora si fece un caffè. Ascoltarono insieme Beethoven e parlarono del Signor Van Amersfoort che era stato fucilato durante la Resistenza e dei libri, tanti, che occupavano anche le sedie del soggiorno. Conversarono a lungo, come si conversa tra persone che si stimano reciprocamente e si rispettano.

“Che cosa vuoi diventare da grande?” domandò.

“Felice” rispose Thomas. “Da grande diventerò felice”.

La Signora Van Amersfoort stava per tirare fuori un libro, ma si voltò sorpresa. Guardò Thomas sorridendo e disse: “Perdio, questa si che è una buona idea. E sai quando si comincia a essere felici? Quando non si ha più paura “.

Prese il libro dallo scaffale. “Ecco” disse.

Thomas si sentì arrossire. Guardò il libro posato sulle sue ginocchia. S’intitolava “Emilio e i detective ”.

“Grazie mille” balbettò.

“Parla di un bambino che non vuole avere paura e combatte le ingiustizie del mondo ” raccontò la signora Van Amersfoort. “Puoi tenerlo”.

Lei finì il suo caffè e Thomas la sua aranciata.

“Oggi sei stato molto coraggioso” disse. “Sei entrato in casa mia anche se tutti i bambini dicono che sono una strega .

Thomas non osò guardarla negli occhi. Lei lo sapeva! Lo diceva così, senza peli sulla lingua.

“Fra l’altro, hanno ragione” continuò. “lo sono una strega. ”

Cadde un silenzio di tomba. Talmente silenzioso che Thomas sentì gridare il papà e senti la mamma lamentarsi dall ’altra parte del muro. “Cavoli” disse. “Si sono fatte le cinque e mezzo. Devo tornare a casa”. Balzò in piedi con il libro in mano. “Arrivederci signora, e grazie”.

Uscì dalla sala, ma sulla porta si fermò. Aveva ringraziato abbastanza la signora Van Amersfoort? No. Tornò nel soggiorno. “Di tutto” aggiunse.

“Va bene così, figliolo” disse la signora Van Amersfoort. “Smetterai di avere paura? ”

“Sì” disse Thomas. “Delle streghe di sicuro”. (Ibidem, p. 26)

Thomas inizia a frequentare la casa della cosiddetta strega, impara a dire ciò che vive e ciò che sogna, ciò che teme e ciò che lo rende felice. Dà spazio ai suoi pensieri, che sono, come dice Grossman, alcuni teneri, morbidi e saltellanti come cuccioli, altri freddi, duri e pesanti come pietre, altri ancora scoppiettanti come

fuochi d’artificio (Grossman, 2010, p. 84).

La signora Van Amersfoort trasforma la vita di Thomas con l’integrità, la chiarezza, il coraggio del suo comportamento fornendogli il modello di un adulto sano rispettoso delle fantasie e delle strategie di

sopravvivenza dei piccoli.

Muriel James avrebbe definito la sua presenza come quella di un “Nuovo genitore” che integra i permessi, allenta i condizionamenti, trasforma una famiglia in scatola in una famiglia in cammino.

I mostri selvaggi: un po’ vento e un po’ lupo

E quando non ci sono vicini di casa di buon senso e mancano anche le signore Van Amersfoort?

E’ il caso di Max, protagonista del romanzo di Dave Eggers Le Creature Selvagge.

Max pensa molto e sogna.

Max si distese sul letto e si mise un po’ a pensare. (…) Ogni tanto a Max pareva che anche i suoi pensieri potessero essere raddrizzati, messi in fila e contati; indotti a comportarsi bene.

C’erano giorni in cui riusciva a leggere e a scrivere per ore consecutive, e capiva tutto quello che veniva spiegato a scuola, mangiava con calma, aiutava a riordinare e poi se ne andava a giocare tranquillo nella propria stanza.

C’erano volte però, altri giorni, la maggior parte a dire il vero, in cui i pensieri non si allineavano. Giorni in cui lui inseguiva i vari ricordi e impulsi che gli sfuggivano zigzagando, nascondendosi nel folto della sua mente.

E gli pareva che in questi casi, quando c’era qualcosa di cui non riusciva a capacitarsi, quando i pensieri non fluivano uno nell’altro, finiva sempre per fare e dire cose di cui poi si pentiva. (Eggers, 2009, p. 30)

A volte pensava di andarsene di casa per sempre, a volte combinava guai catastrofici per vendicarsi del cattivo comportamento di qualche familiare nei suoi confronti.

Un giorno allagò la camera di sua sorella Claire.

“Max, che cosa ti è saltato in mente?”

Lui non se ne ricordava più. I suoi pensieri si erano di nuovo sparpagliati e nascosti in tanti piccoli buchini (Ibidem, p. 34).

Max è confuso e perplesso. Niente va per il verso giusto.

Il professore di educazione fisica ignora le regole del gioco del calcio e lo punisce per un fallo inesistente, l’insegnante di scienze annuncia che il sole morirà prima o poi e la terra si disintegrerà in un attimo

e, in ogni caso, già prima la razza umana cadrà vittima di qualche calamità, tipo guerre, cambiamenti climatici, meteoriti, inondazioni, terremoti spettacolari, super-virus…

Insomma, uno scenario apocalittico, un futuro di morte.

Aggiungi una mamma stanca, un compagno della mamma pigro e inadeguato, una sorella impossibile, un padre lontano.

Anche Max tiene un diario. Glielo aveva regalato suo padre ed era un diario speciale. Era un “Diario dei desideri”.

“In questo quaderno scrivi quel che desideri. Tutti i giorni o tutte le volte che puoi, scrivi quel che desideri. Così, tutte le volte che ti sentirai confuso o senza timone, potrai aprire questo quaderno e ricorderai subito dove desideri andare e che cosa cerchi”. (Ibidem, p. 60)

Così gli aveva detto suo padre e ogni tanto Max scriveva quello che desiderava e molte altre cose.

Una sera, quella sera in cui Max proprio non ne poteva più, saltò fuori il quaderno dei desideri e Max incominciò a scrivere.

IO DESIDERO che Gary (il compagno della mamma) cada in qualche buco senza fondo,

IO DESIDERO che Claire (la sorella) finisca con un piede in una tagliola per orsi.

IO DESIDERO che gli amici di Claire muoiano divorati dal verme solitario.

A quel punto si fermò. Suo padre aveva sottolineato che in quel diario doveva scrivere i desideri positivi, non quelli negativi. I desideri negativi non valgono, aveva detto. (..)

Un desiderio doveva migliorare la propria vita, migliorando nel frattempo anche il mondo, sia pure di pochissimo.

Max, allora, riattaccò.

IO DESIDERO andarmene di qui.

IO DESIDERO andare sulla luna o su qualche altro pianeta.

IO DESIDERO trovare il DNA di un unicorno, per allevarne un branco e addestrarlo a infilzare gli amici di Claire. (Ibidem, p. 61)

Si fermò un’altra volta perché il desiderio non era del tutto positivo.

Cosa voleva fare a questo punto? Ecco il problema centrale di quella giornata, e di quasi tutte le altre.

Decise che sarebbe stato bello costruirsi una nave, ma la cosa non lo rallegrò, anzi gli fece venire la nostalgia di suo padre che l’estate precedente l’aveva portato in barca cinque volte e gli aveva insegnato l’essenziale per pilotare una barchetta e gli aveva anche detto: “Max, sei un talento naturalel”

Pensoso delle cose del mondo, sconfortato, triste, turbato dalla preoccupazione di aver perduto l’affetto della sua mamma, alla fine Max vide appeso dietro l’anta dell’armadio il suo costume da

lupo. Non lo metteva da diverse settimane. Lo aveva ricevuto in regalo a Natale, tre anni prima, l’ultimo Natale trascorso con tutt’e due i genitori; lo aveva indossato subito e non se l’era più tolto per tutte

le vacanze.

A quei tempi gli andava un po’ grande, ma sua madre, con gli spilli e lo scotch, gliel’aveva stretto un po’.

Max era cresciuto e adesso il costume era perfetto. Ritenne opportuno ululare per entrare meglio nella parte. La famiglia non gradì. Allora lui uscì di casa.

Basta. Max non era tenuto a sopportare oltre. Apri la porta di scatto, con un balzo fu nella veranda e poi svanì nella notte. (Ibidem, p. 69)

Appena fuori: l’aria, la luna, il torrente, la barca a vela, la fuga, l’isola, l’incontro con le creature sconosciute.

E qui si apre uno scenario dei più fantasiosi, dei più affascinanti che mai abbia popolato fantasia di bambino. Max si ritrova in un paese magico abitato da personaggi strani, il Paese dei mostri selvaggi.

E Max diventa il loro re.

Max si era stufato di parlare e aveva voglia di ululare, perciò corse via, guidando tutti sulla costa dell’isola.

“Andiamo! ” disse, e tutti lo seguirono.

Ogni tanto, mentre correva, faceva una capriola, e le bestie lo imitavano. Lui spiccava un salto, e tutti facevano altrettanto o ci provavano, almeno. Lui emetteva rumori da mitragliatrice, e gli altri si impegnavano al massimo per riprodurli.

E a un certo punto arrivarono in quello che pareva il punto più elevato dell’isola, una scogliera a picco sull’oceano, con uno strapiombo di decine e decine di metri. Quando tutti lo ebbero raggiunto sull’orlo del precipizio, Max capì che la cosa più giusta da fare era ululare.

E attaccò a ululare. E anche le bestie ulularono, con più forza e convinzione di Max, che da parte sua non se ne ebbe a male. Nulla poteva essere aggiunto o tolto alla perfezione di quel momento. Max continuò a ululare e si sentiva se stesso – un  po’ vento e un po’ lupo – più di quanto gli fosse mai successo prima (Ibidem, p. 107).

Max è il re di creature selvagge dalle relazioni interpersonali molto complesse.

E anche nel paese nuovo deve fare ordine con fatica tra i pensieri. Inoltre ha fame.

Aveva la testa leggera e i morsi allo stomaco. E più di qualunque altro cibo avrebbe desiderato una bella minestra. La minestra scende giù facile e lo avrebbe riscaldato e rimesso in sesto. Qualunque minestra sarebbe andata bene, ma la crema di funghi che gli faceva sua madre quando era malato sarebbe stata il massimo.

Forse, pensò, gli conveniva tornarsene a casa. (Ibidem, p. 186)

Si domandò in quale casa, se da sua madre con tutto il pandemonio che vi aveva lasciato o se da suo padre, ma non trovò una risposta. Gli venne da piangere e pianse tantissimo.

Dopo altre avventure e importanti eventi nell’isola delle creature selvagge, Max decise di tornare a casa, e si mise in mare aperto.

Max navigò sotto la luna piena, senza mai scorgere terra. Navigò a lungo, e finalmente toccò terra.

Corse veloce verso la sua casa. Quando fu a poca distanza rallentò e prese a camminare.

Perché aveva rallentato? Lui stesso lo ignorava. Forse era solo il peso di essere di nuovo a casa. Era stato via così a lungo. Anni, gli pareva. E ora che era tornato si sentiva diverso. Sua madre lo avrebbe riconosciuto? E Claire? Per certi versi si sentiva troppo grande per quella casa. Ma si sentiva anche in grado di riprovare a starci dentro (Ibidem, p. 233).

In anticamera sua madre aveva ricomposto con la massima delicatezza e cura l’uccello che lui aveva costruito durante le lezioni di arte.

In cucina, sul ripiano, c’era la cena pronta per lui: un piatto di crema di funghi, un bicchiere di latte e una fetta di torta. Senza neppure sedersi, divorò tutto avidamente, e mentre mangiava vide sua madre addormentata sul divano.

Finì di mangiare, si sfilò dalla testa il costume da lupo e le si avvicinò. Si era addormentata con gli occhiali ancora inforcati.

Max la osservò a lungo, con la testa inclinata. Le tolse gli occhiali, che posò silenziosamente sul tavolino accanto al divano. Le sfiorò piano il viso, ravviandole il ciuffo di capelli dietro l’orecchio.

Restò lì un altro po’a osservarla ed ebbe finalmente la sensazione di conoscerla davvero, o quasi, e fu felice di vederla riposare (Ibidem, p. 233).

Questa è la storia di Max che sognò un viaggio pieno di rischi e di pericoli in una terra inospitale come inospitale era in quel momento per lui la sua vita. Nel viaggio affrontò le sue paure trasformate in mostri

selvaggi e con loro si misurò.

In copertina il libro riporta: In ognuno di noi c’è speranza. In ognuno di noi c’è paura. In ognuno di noi c’è avventura. In ognuno di noi c’è una creatura selvaggia.

E’ la creatura selvaggia, e il lato d’ombra che dice di noi e a noi le cose più interessanti.

Ma il lato d’ombra spaventa i genitori e turba gli educatori perché è “diverso” da

come ci si aspetterebbe un bambino perbene.

Così accade che i bambini finiscano in qualche scatolone e le famiglie si chiudano a riccio.

È pur vero che i ragazzini hanno da essere educati e diventare adulti responsabili, ma sarebbe magnifico saperne anche preservare l’unicità con il suo incredibile potenziale di sogni e di fantasie, la pienezza delle immagini, i progetti per il domani.

In una intervista a Luciana Sica (La Rep. 18 nov. 2006), Mario Trevi diceva:

La psicoanalisi ci suggerisce che l’uomo è inesplorabile: il che non significa optare per l’ignoranza, per il negativismo, per lo scetticismo. Significa solo rispettare l’infinita dell’uomo.

Riassunto

I bambini speciali, spesso detti “diversi”, vedono cose che nessun altro vede. Le pensano, le sognano e, talvolta, in questo modo sopravvivono.

Bibliografia

DRUON, M. (1957). Tiston les pouces verts. (trad. it, a cura di Brunilde Neroni, Il bambino dai pollici verdi, Sellerio, Palermo, 1995).

EGGERS, D. (2009). The Wild Things, by Dave Eggers, Maurice Sendak & Warner Bros Entertainment Inc. (trad. it. di Gianni Pannofino, Le Creature Selvagge, Arnoldo Mondadori, Milano, 2009).

GROSSMAN. D. (2004). Ruti tishan vetishan. (trad. it. Ruti vuole dormire e altre storie, Mondadori, Milano, 2010).

KUIJER, G. (2004). Het Boek van alle Dingen. Amsterdam, Em. Querido’s Uitgeverij B.V. (trad. it. di Dafna Sara Fiano, Il Libro di Tutte Le Cose, Salani Ed. Milano, 2009).

KHAYAT, O. (2008). Le Pays sans Adultes. Editions Anne Carriere, Paris. (trad. it. di Paola Lanterna, Il Paese senza adulti, Piemme, Milano, 2010).

MARAI, S. (1942) A gyertyák csonkig égnek. Csaba Gaal, Toronto (trad. it. di Marinella D’Alessandro. Le braci, Adelphi, Milano 1998).

MARI, M. (2009). Tu, sanguinosa infanzia. Einaudi, Torino.

MORRISON, T., MORRISON, S. (1999) The Big Box. Jump at the Sun / Hyperion Books for Children, NY. (trad. fr. Ma liberté à Moi, Gallimard Jeunesse, 2000).

TREVI, M. (2006). Intervista a Luciana Sica. In La Repubblica, 18 nov.

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