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ARTICOLO Dolores Munari Poda: Il passaggio del dodicesimo anno: adieu tristesse, bonjour tristesse
di Dolores Munari Poda

Per gentile concessione della Società Italiana di Metodologie Psicoterapeutiche e Analisi Transazionale (SIMPAT), l’Associazione I.T.A.C.A. riporta qui l’articolo di Dolores Munari Poda (2000) “Il passaggio del dodicesimo anno: adieu tristesse, bonjour tristesse”, pubblicato nel numero XX, 1-2 della Rivista italiana di Analisi Transazionale e metodologie psicoterapeutiche.

IL PASSAGGIO DEL DODICESIMO ANNO:

ADIEU TRISTESSE, BONJOUR TRISTESSE

Dolores Munari Poda

Anche il polo di ghiaccio ho visitato; come un caos di pietra,

spaventoso il mare torreggiava nel cielo.

Esanime nel guscio di neve, in catene dormiva la vita…

(Hoelderlin, Le ore)

C’e una stagione della vita che molti hanno cercato di definire o di fissare in qualche modo nel tempo, ma essa è — per sua natura — indefinibile e non catalogabile. È solamente prevedibile, oggi, intorno ai dodici anni. E un memento “bianco”, una assenza, un vuoto, una vertigine.

    Nel costruirsi persona ogni bambino (bambina) arriva un giorno, disarmato (disarmata), a quel punto. Talvolta il terapeuta è testimone del passaggio.

    Quel giorno e in quell’ora sembra fermarsi (sospendersi) la calda vita dell’infanzia e il bambino (la bambina), non più bambino/bambina, d’improvviso non possiede strumenti lessicali adeguati a dare vita alla simultanea molteplicità delle risonanze che ha dentro, una sfibrante ininterrotta giostra di personaggi, di voci di casa, di scuola, di amici… Non ha parole (se intendiamo, con Calvino, la parola «come inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita») per restituire il senso di straniamento improvviso che stravolge le quotidiane coordinate del vivere.

    Di fatto, la (il) dodicenne è sola (solo), nella baia di nessuno, contenitore vivo di messaggi diventati incomprensibili geroglifici. Sono per il bambino o per il grande? E il dodicenne é grande o piccolo? Accade talvolta al (alla) dodicenne di attraversare un tempo lungo di sguardi evasivi, di scarabocchi antichi su fogli martoriati, di silenzi alla ricerca di una lingua nuova.

    Anche il (la) dodicenne sembra vagheggiare, come il Lord Chandos di Hofmannsthal (1974), una lingua che non sia «il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola [sia] nota, una lingua in cui parlano le cose mute».

    Quando cambiano la misura e la sostanza del corpo, e la scoperta è, di fatto, improvvisa, si trasforma anche lo sguardo sul mondo.

    Tutto appare sconosciuto, di altra misura relazionale, gon?o di suoni insensati, come se davanti a un universo non più ordinabile nei consueti rassicuranti schemi, anche le parole di sempre non fossero più — come sempre — ordinabili.

    E le cose non fossero più nominabili né dominabili dal linguaggio.

    È l’esperienza del caos, della vertigine, dell’usura della lingua («Nessuno mi capisce. Gli altri parlano, parlano, parlano…»), quella che anche turbò Mallarmé e angosciò Tolstoj.

“Non riuscivo più a cogliere (uomini e azioni) con lo sguardo semplificatore dell’abitudine. Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo

appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta e oltre i quali si approda nel vuoto.”

(Hofmannsthal, 1974)

    Cambia dunque lo sguardo sul mondo.

    Cambia il mondo. Mutano i parametri di riferimento, le misure non sono più le stesse. Le parole per dirlo (e dire che cosa?) devono essere altre (ma quali?).

    Allora, il silenzio. O un segno diverso, una scialuppa di salvataggio, l’antica Sirenetta, o magari il buon vecchio alfabeto muto che è anche un rituale infantile, un gioco, talvolta, o un antico strumento di sopravvivenza, appunto.

    E nel segno “una smisurata partecipazione”, tutta l’anima appesa lì, e l’impazienza se il terapeuta è lento a comprendere («Hai capito? Se non hai capito, non importa. Al limite, non ho mica detto niente»).

Il giorno di Cleo

    Il giorno in cui Cleo dodicenne fece la sua esperienza del perturbante e si misurò con la sua nuova dimensione esistenziale fu quello in cui giunse vestita con gli abiti della sua mamma: voleva provare come “stava” con i vestiti da grande.“

    Cleo era (e da quell’incontro non lo fu praticamente più) una bambina morbida, affettuosa, e amante della buona conversazione.

    Di colpo, come colpita da un fulmine, è una donna. Senza parole, senza spiegazioni. Come se le parole che aveva sempre usato con amabile gentilezza non le conoscesse più. O forse, improvvisamente, volevano dire un’altra cosa.

    Si guarda attorno in silenzio. Dondola sulla sedia per un po’. Sbadiglia educatamente.

    Dice: «Sono distrutta. Non riesco tanto a dormire di notte».

    Il terapeuta si informa. Ottiene sintetiche informazioni. Altro cortese sbadiglio dimostrativo. Il terapeuta chiede se Cleo sogna. (I sogni sono fedeli compagni dei bambini.) Sì, sogni tremendi. Può disegnarli su un foglio dello studio che porta già prestampato a sinistra un letto e un grande spazio per il fumetto. Velocissima traccia i suoi segni, senza dire una parola. Alla ?ne traduce la storia con l’alfabeto muto, aiutandosi con nuovi veloci segni esplicativi.

    Il testo alla ?ne della traduzione è questo, ed è il racconto di un sogno sognato dalla Principessa Albertine chiamato da Cleo “Doppio incubo”:

Doppio incubo

    Nel letto sta la Principessa Albertine e sogna.

    Ha un incubo.

    C’è una ragazza in cima alla scala.

    All’inizio gli scalini sono piccoli, difficilissimi, alti solo cinque centimetri.

    Poi diventano di cinquanta centimetri.

    Vedo spine di vetro ed erba spinosa.

    Sotto la scala ci sono tre serpenti, di cui uno arrotolato intorno a un pianerottolo. Se lei si muove, il serpente la morde e la fa morire.

    Quindi lui deve andare da lei superando la prova. Lui sta al fondo della scala e deve arrivare in cima.

    Se lui muore, lei non si potrà più sposare con nessuno.

    Questo era l’incubo di lei, uno spavento terribile.

    Ora l’incubo di lui.

    In alto sulla scala c’è lui.

    Vedo la stessa scala con gli stessi problemi. Al fondo c’è la Principessa Albertine. E quindi possiamo dedurre che lui e lei hanno lo stesso incubo.

    Conclusione: quando due vogliono mettersi in coppia, è sempre un casino.

    Fiabesco, terribile come le fiabe, l’incubo è raccontato a sprazzi, quasi senza parole, unicamente attraverso i movimenti della mano, del volto, del pennarello nero che suggerisce una atmosfera di sinistro incantamento.

    Cleo è terrorizzata.

    È vero, al mattino è tornata la luce del giorno, come d’abitudine. Dicono che lei nella notte abbia singhiozzato. All’alba l’incubo è sparito, ma resta «quella esaltazione che viene dal non sapere che

fare di tutto questo … dal non sapere che cosa scriverne, che cosa dirne, e che cosa mostrare: un sereno terrificante» (Duras, 1978).

    È questa la vita?

    È questo l’Amore?

    Tra spine di vetro ed erba spinosa la morte compagna dell’amore è la paura fondamentale in cima a quella scala nella notte.

    «Se lei si muove, il serpente la fa morire…»

    «Se lui muore…»

    Assediato dalla morte, il terapeuta recupera Bruno Callieri e il suo forte articolo Sulla morte, che inizia con una citazione:

   ” si allenava a vivere la propria lenta e certa morte con assoluta rassegnazione, persino con disponibilità, nonostante desiderasse vivere mille anni, solo che… non riusciva ad accettare il fatto che un giorno avrebbe smesso di esistere per sempre, mentre la morte in sé… restava dopo tutto qualcosa di vago e inafferrabile, e per questo dunque temibile e disperante; non riusciva a ricondurla ad alcuna esperienza attuale e nemmeno a paragonarla a qualcosa d’altro che avesse provato…”

(dal romanzo Inventario di Yaakov Shabtai, cit. in Callieri, 1994)

    Cleo comunica con il silenzio dei segni l’esperienza della morte, il sentirsi trascinati fuori dalla vita, l’essere invasi dalla paura, assaliti dal terrore: una sorta di discesa agli Inferi. Forse è questa la trasformazione (cui allude il serpente) che attende ogni bambino e ogni “grande” negli snodi complessi dell’esistenza e forse

ha ragione Dina Vallino quando scrive che non può fiorire una analisi viva se non centrata su una esperienza di morte che l’analista riesce a elaborare (Vallino, 1992).

    La dodicenne (il dodicenne) discende e risale. Mai più — dopo — solamente bambina (bambino).

   “Certo, ci si ricordava…

    Ma sicuramente c’erano anche dei sogni che si dimenticavano del tutto, dei quali non restava più traccia, tranne un certo strano stato d’animo, uno stordimento misterioso.

    Oppure si ricordavano solo più tardi, molto più tardi, e non si sapeva più se si era fatta un’esperienza reale o soltanto sognato…”

(Schnitzler, 1931)

    Il doppio incubo di Cleo sembra ricalcare nella sua misteriosa concatenazione il fantasma dei turbamenti paralleli della Traumnovelle (in Doppio Sogno) di Schnitzler.

    Sette sono le parti strutturali della Traumnovelle e sette i temi di Cleo: la ragazza, la scala, i primi gradini di cinque centimetri e quelli di cinquanta, le spine di vetro, l’erba spinosa, i tre serpenti…

    Il “casino” — come azione onirica speculare — pre-sentito drammaticamente da Cleo quando “due si vogliono mettere in coppia” appare prefigurazione annunciata dell’enigma della relazione amorosa auspicata e temuta.

    Cosicché, se alla Principessa Albertine e al suo innamorato fosse concesso di superare le terribili prove iniziatiche, la storia potrebbe forse provvisoriamente concludersi come la novella di Schnitzler:

    “Finalmente egli si chinò su di lei e fissando il suo volto immobile dai grandi occhi chiari nei quali adesso sembrava riflettersi il sorgere del giorno, chiese dubbioso e pieno di speranza: «Che dobbiamo fare, Albertine?

    Lei sorrise, e dopo una breve esitazione rispose: «Ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure… da quella vere e da quelle sognate».

    «Ne sei proprio sicura?» chiese Fridolin.

    «Tanto sicura da presentire che la realtà di una notte, e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità.»

    «E nessun sogno» disse egli con un leggero sospiro «è interamente sogno.»”

    Così la dodicenne (il dodicenne) lascia le rive dell’infanzia: entra nell’altra sua storia.

    «E misi me per l’alto mare aperto.»

Bibliografia

CALDERON DE LA BARCA, La vita è sogno, Adelphi, Milano, 1967.

CALLIERI B., “Sulla morte, note psico-antropologiche”, Attualità in Psicologia, n. 2, 1994, ed. Universitarie romane, Roma.

CALVINO I., Lezioni americane, Mondadori, Milano, 1993.

DURAS, M., Testi segreti, Feltrinelli, Milano, 1978.

HOFMANNSTHAL, H. VON, Lettera di Lord Chandos, Milano, Rizzoli, 1974.

ROMANINI M.T., Costruirsi persona, La Vita Felice, Milano, 1999.

VALLINO MACCIÒ D., “Sopravvivere, esistere, vivere: riflessioni sull’angoscia dell’analista”, L’ esperienza Condivisa, Cortina, Milano,1992.

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