L’associazione I.T.A.C.A. riporta qui l’articolo di Dolores Munari Poda (2013) “Fanita English e i bambini”, pubblicato nel Quaderno delle Giornate di studio di Lavarone 2012 (pag 18-23).
FANITA ENGLISH E I BAMBINI
Dolores Munari Poda
Gli analisti transazionali dei bambini, e anche quelli dei “grandi”, devono molto a Fanita English, alla sua testimonianza storica, alla capacità di visione indipendente e responsabile, alla rilettura creativa del concetto di copione, alla riconcettualizzazione dello stato dell’Io Bambino, allo svelamento degli irretimenti potenzialmente distruttivi dei sistemi familiari, sociali, aziendali attraverso l’epicopione.
Ne consegue un particolarissimo approccio attivo, fattivo, concreto anche all’Analisi Transazionale infantile, da lei sostenuta, difesa e apprezzata.
Fanita English ha sempre dichiarato il suo interesse per i bambini e la sua attenzione per lo sguardo bambino sul mondo, un interesse nato inizialmente con gli studi parigini alla Sorbona, e, poi, negli anni americani, integrato con l’apprendimento e la pratica al Children’s Center a Detroit, con le soluzioni terapeutiche innovative bambino-famiglia alla Ridge Farm di Chicago e, ancora, con i Seminari Tavistock del 1964 a Leicester e a Londra.
Ha dedicato riflessione particolare alle vicende della prima età della vita, come traspare anche dalle conversazioni autobiografiche con Sigrid Röhl, dove molte pagine sono dedicate alla sua infanzia e a quelle dei figli, spesso commentate e interpretate alla luce dell’Analisi Transazionale.
I bambini sono poi oggetto di approfondimento in numerosi articoli e libri (soprattutto in Wenn Verzweiflung zu Gewalt wird, 1992 e nel recente Lebenscoaching, 2009) a partire dal grande affresco evolutivo di “What Shall I Do Tomorrow?” (1977), più volte ripreso nei suoi successivi contributi relativi al copione.
Ciò è del tutto congruente proprio con il concetto stesso di script, inteso come luogo in cui sedimentano le esperienze primarie e, di riflesso, s’impostano le grandi decisioni esistenziali di base.
Stupiva molto, anni fa, la nota affermazione che fosse scarsa o non esistesse proprio la cura dei bambini in Analisi Transazionale, se non in contesti prevalentemente educativi, quando, invece, il cuore dell’Analisi Transazionale è costituito dal copione e il copione è traccia di vita a partire dalla nascita, se non prima. English non mitizza, non offre immagini edulcorate, non ama le utopie, ma restituisce una lucida visione della forza e della fragilità dell’infanzia, della complessità di ogni relazione con il bambino: familiare, scolastica, clinica. Molto prima dell’avvento ufficiale dell’AT relazionale di Sills, Hargaden, Cornell, era chiaro a Fanita il reciproco impatto bambino – adulto, l’incontro – scontro educativo, il fronteggiarsi di due energie e di due sensibilità, nella vita come nella terapia: suo grande merito è proprio l’aver colto dall’inizio la natura essenzialmente relazionale dell’intero processo evolutivo.
Le parole di English raccolte qua e là nei seminari, negli articoli e nei libri – una sorta di educazione ai sentimenti arricchita di risvolti operativi – rimandano sempre alla innata forza di sopravvivenza e di resilienza del bambino, alla fiducia nelle sue risorse potenziali, nonostante la posizione sociale di oggettiva dipendenza. Non incontriamo immagini rotonde e pacificanti, né mai la mistica della maternità o l’ottimismo della ragione, ma piuttosto la consapevolezza dei molti mari in tempesta che, per crescere, può essere necessario attraversare – genitori e figli – e, insieme, la fiducia nelle infinite reciproche possibilità progettuali, il rispetto per la creatività delle soluzioni, la meraviglia per ogni vita e per ogni età della vita.
English tiene in grande considerazione i pensieri dei bambini, la loro capacità di affrontare i problemi, la loro carica emotiva, la capacità di simbolizzare, trasformare, creare, costruire la propria esistenza, «il meraviglioso evento della formazione del copione», evento che sempre si ripropone e si rinnova in ogni stagione del vivere (English, 2010).
«Sono sempre colpita dal modo in cui i bambini sono motivati atradurre i loro desideri in copioni colorati e da come le creature umane possano trovare modalità immaginative per usare questi precoci schizzi esistenziali, consapevolmente o inconsapevolmente dando supporto allo sviluppo delle loro vite», scrive Fanita in “It Takes a Lifetime to Play out a Script” (English, 2010).
Il bambino nasce poeta, ci ricorda Salomon Resnik. E crea la sua storia. E, come gli storici, per tutta la vita, la riscrive rielaborandone gli elementi (Resnik, 2008).
«E la vita è – ne sono sicuro – fatta di poesia. La poesia non è un’estranea; la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo. Ci può balzare addosso in ogni momento», suggerisce Borges (2000).
Compito di chi ascolta, accompagna, “cura”, genitore, insegnante o terapeuta, è di non uccidere la poesia, ma di addestrarsi a sentire i movimenti del cuore, come diceva Marion Milner (1987).
Così, riprendendo Cremerius,
la biografia non è più il risultato di forze oscure, la forza del destino, per esempio, a cui l’uomo deve piegarsi, bensì un atto di attribuzione soggettiva di senso. La forza emancipatrice di questa idea sta nel fatto che da allora in poi la storia della vita non è predeterminata né dall’arbitrio di un dio demiurgico, né dalle invisibili catene del codice genetico. Ciò che poteva essere concepito solo come mistero, irrazionalità o piatta predestinazione, diventa ora accessibile al comprendere come azione creativa. La biografia diviene concepibile come qualcosa che l’uomo non ha, ma che crea egli stesso […]. Una creazione e non una “storia oggettiva”. Solo nel momento in cui il paziente può considerare la sua storia non più come data da avvenimenti esterni definiti e conseguenza di circostanze esterne quali il carattere dei genitori, l’educazione ricevuta […], solo allora egli è in grado di riconoscere che cosa ha fatto di questa storia. Solo allora si accorge di essere l’autore della propria vita, un fatto che gli dona libertà e responsabilità (Cremerius, 1984).
Ogni bambino, ogni creatura, possiede in origine, in un suo modo peculiare, una sua specifica facoltà creativa. L’adulto, genitore o terapeuta o educatore, dovrebbe saper offrire al piccolo uno spazio per esprimerla e/o condividerla attraverso i canali espressivi privilegiati nelle diverse occasioni: giochi, disegni, favole, costruzioni, narrazioni, movimenti, scoperte, in modo da stabilire un «clima emotivo di comprensione nel quale si renda possibile un processo dialogico» (Cremerius, 1984), perché noi siamo un colloquio (Borgna, 1999) e abbiamo bisogno di essere ascoltati e capiti.
Vorremmo essere compresi nelle nostre parole, nei nostri silenzi e anche nelle nostre fatiche e negli apparenti insuccessi.
«Questo bambino è stato oggetto di attenzioni, ha avuto cure materne e tenerezza in grande quantità, talvolta in modo persino esagerato. Ma solo di rado ha provato questo piacere: essere capito», osserva Grossman (1998).
Essenziale è, secondo English, consentire al piccolo di seguire le proprie leggi di crescita sorvegliando con cura la difficile alchimia tra gli aspetti necessariamente educativi e i ritmi vitali personali. I tre motivatori sono presenti nel bambino e spesso, come avviene nell’adulto, la spinta alla sopravvivenza e il desiderio di espressività si incrociano, bloccandosi. Ne soffre il piacere di pensare, si arresta la creatività, si evidenziano note depressive.
È noto come talune imposizioni familiari, esigenze scolastiche, difficoltà ambientali possano configurarsi in blocchi del pensiero creativo, immobilità, paralisi, zone d’ombra e di silenzio, in una sorta di stasi mortifera dolorosissima per il bambino. Bisognerà allora recuperare il contatto emozionale e la spinta espressiva, lentamente rimettendo in moto la possibilità di giocare, di pensare, di progettare, di creare, in un dialogo di segni e di parole, «portando alla luce quello che è potenzialmente fecondo» (Resnik,1993).
Questo sarà il compito del terapeuta, ma anche dell’educatore illuminato.
Fanita rievoca spesso la figura della sua insegnante di lingua tedesca a Istanbul:
Credo di avere mosso i primi passi nel mondo come bambina molto adattata e di aver successivamente avuto incoraggiamento a sperimentare e a esplorare da figure genitoriali esterne alla mia famiglia. Ricordo con particolare emozione un’insegnante di tedesco che, di fatto, era, senza saperlo, istintivamente “terapeuta” infantile. Lì ho compreso l’importanza determinante della terapia infantile e ho poi lavorato a mia volta a lungo e intensamente con i bambini (Intervista a Fanita English, in occasione della presentazione di EssereTerapeuta al Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano).
English parla d’incoraggiamento a sperimentare e a esplorare, sostenendo in questo una naturale attitudine del bambino poiché, come dice Benjamin, «il bambino riesce a fare qualcosa che l’adulto è del tutto incapace di compiere: riconoscere il Nuovo» (Benjamin, 2012).
Per ottenere questo scopo non sono necessarie, e forse neppure opportune, tecniche, tattiche o strategie specifiche. Ogni strumento, ogni “attrezzo” artigianale può essere utile allo scopo di perseguire un buon equilibrio tra le pulsioni. Essenziale è soprattutto l’ascolto attento del linguaggio del bambino nelle sue diverse forme, con «l’improvvisa irruzione di un dettaglio o di una metafora spaesante o di un particolare eccentrico» (Benjamin, 2012).
Non servono prescrizioni, ma una mente aperta e per niente moralizzante, come Parthenope Bion Talamo dice del proprio padre Wilfred R. Bion.
Il mio ricordo di Bion come padre è che non si dimenticò mai cosa vuol dire essere bambino, come ci si può sentire smarriti e perduti, disperati e affranti, ma anche come si può essere enormemente felici semplicemente stando accoccolati in braccio ad ascoltare una favola, o rapiti dalla bravura con la quale il papà o la mamma sanno disegnare un treno, fare dei biscotti, giocare a pallone: Bion difatti era un gran compagno di giochi e letture per tutti e tre i suoi figli, di quelli che si dedicano totalmente a quanto stanno facendo in quel momento (Bion Talamo, 2008).