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ARTICOLO Cesare Todescato: Verso un nuovo modello strutturale: gli stati dell’Io tra teoria e neuroscienze
di Cesare Todescato

Per gentile concessione del Centro di Psicologia Dinamica di Padova, riportiamo qui l’articolo di Cesare Todescato (2015) “Verso un nuovo modello strutturale: gli stati dell’Io tra teoria e neuroscienze”, pubblicato sul numero 19 dei Quaderni CPD (pag 139-161).

VERSO UN NUOVO MODELLO STRUTTURALE: GLI STATI DELL’IO TRA TEORIA E NEUROSCIENZE

 Cesare Todescato

Introduzione

L’Analisi Transazionale è un modello evolutivo, una filosofia e un sistema teorico e metodologico di psicoterapia, counseling, educazione e indagine psicologica. Un sistema che funziona e che nel corso degli anni si è costantemente evoluto e ampliato.

Le attuali conoscenze sul funzionamento mentale, derivate dalle neuroscienze, sembrano confermare molteplici aspetti della teoria analitico transazionale; contemporaneamente pongono però degli interrogativi o sottolineano i limiti riguardanti l’effettiva validità dell’espressione teorica di alcuni concetti.

Questo lavoro, rifacendosi alle recenti ricerche neuroscientifiche e ritrovando le sue basi nell’AT psicodinamica di Novellino, vuole essere un contributo di aggiornamento rispetto al modo di intendere gli stati dell’Io ed il modello strutturale.

A proposito dell’Io e degli Stati dell’Io

In qualsiasi momento dell’umano vivere viene agito un dato comportamento collegato ad un certo stato somato-viscerale, mentre all’interno della nostra mente si affacciano e si sostituiscono emozioni, sensazioni, pensieri, fantasie e riflessioni.

Ciò accade perché il sistema nervoso, nel suo funzionamento generale, raccoglie informazioni relative alla percezione degli stimoli e mette in collegamento tra loro parti diverse in modo da creare una sinergia unificatrice, utile all’esistenza dell’individuo. In Analisi Transazionale il risultato espresso di questa sinergia viene indicato come stato dell’Io.

Berne scrive:

“Uno stato dell’Io si può descrivere fenomenologicamente come un sistema compatto di sentimenti riferito a un determinato soggetto, e operativamente come un insieme di compatti modelli di comportamento; o pragmaticamente come un sistema di sentimenti che motivano il corrispondente insieme di modelli di comportamento” (Berne, 1961, p. 9).

E poco più avanti:

“Il termine ‘stato dell’Io’ va inteso esclusivamente come una designazione degli stati della mente e dei relativi modelli di comportamento come esistono nella realtà” (Ibidem, p. 20).

Subito dopo averne dato una definizione, Berne, affidandosi al “principio che la funzione nascesse dalla struttura” (Novellino, 2004, p. 77), collega gli stati dell’Io al sistema nervoso, definendo per la prima volta gli organi psichici:

“L’esteropsiche, la neopsiche e l’archeopsiche vengono considerate organi psichici, i quali si manifestano fenomenologicamente come stati dell’Io esteropsichici (p. es. identificatore), neopsichici (p. es. elaboranti i dati), ed archeopsichici (p. es. regressivi). Nel linguaggio familiare ci si riferisce a questi tipi di stati dell’Io con i termini rispettivi di Genitore, Adulto e Bambino” (Berne, 1961, p. 15).

Uno stato dell’Io è dunque un fenomeno (Berne, 1961, p. 217), espressione momentanea di un particolare quadro di attivazioni cerebrali. Se provassimo ad immaginare la nostra vita come se fosse un film, uno stato dell’Io sarebbe un fotogramma, o comunque una breve sequenza, destinato a cambiare di scena in scena, di azione in azione, adattandosi, o meno, al flusso continuo della narrazione.

La terminologia stessa impiegata da Berne può aiutare ad approfondire quanto detto sopra: rifacendosi al suo retroterra psicoanalitico (Novellino, 2004), inquadrò Adulto, Bambino e Genitore come stati dell’Io, cioè momenti dell’Io.

Quando formulò il modello strutturale, Freud disse che nella persona “vi è un nucleo organizzato che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale Io è legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità […]; l’Io è quella istanza psichica che esercita un controllo su tutti i processi parziali dal lui stesso messi in moto” (Freud, 1923, p. 25). Oggi sono riconosciute come funzioni dell’Io la percezione, la capacità motoria, la consapevolezza, il controllo delle azioni, l’anticipazione degli eventi, la memoria, la fantasia, il pensiero, il linguaggio, le difese psichiche, l’esame di realtà e l’affettività (Lis, Stella & Zavattini, 1999; Mangini, 2001). L’Io, dunque, è quella struttura psichica che, grazie alle sue varie funzioni, permette di caratterizzarci come individui e gli stati dell’Io sono momenti di espressione dell’Io in un dato momento. Infatti, così in italiano come in inglese, il vocabolo “stato” indica “la condizione mentale, emotiva o fisica in cui qualcuno o qualcosa si trova in un particolare momento” (Longman Dictionary of Contemporary English 3a ed., 1995, p. 1407. Trad. dell’autore). Se su questo spunto pensiamo alla materia, per esempio all’acqua, e a come essa possa variare aspetto a seconda della situazione dei legami fra molecole dovuta al variare della temperatura, avremo un buon termine di paragone per comprendere ciò che è l’Io (nel nostro caso l’acqua) e cosa sia uno stato dell’Io (cioè la forma in cui possiamo osservarla, il fenomeno).

Ritengo che queste considerazioni introduttive sul legame tra stati dell’Io e istanze psicoanalitiche possano servire come base di partenza per ridimensionare e rivedere l’idea che una persona possa essere pensata, raccontata e “spiegata” esclusivamente in termini di Adulto, Bambino e Genitore, e che vi siano aspetti unici come fantasie, temperamenti, inclinazioni, gusti e altro ancora che si debbano tenere in considerazione per riportare al centro dei nostri pensieri l’individuo.

Ricapitolando:

–          gli stati dell’Io sono fenomeni che si possono osservare nella realtà;

–          questi fenomeni sono espressione di particolari momenti dell’Io;

–          gli individui non si possono raccontare e spiegare unicamente in termini di stati dell’Io.

Date queste premesse generali, immergiamoci ulteriormente nella teoria AT.

Stati dell’Io, Adulto, Bambino e Genitore

I termini stato dell’Io, Genitore, Adulto e Bambino vengono, purtroppo, usati in analisi transazionale con accezioni diverse che a volte causano confusione” (Cavallero, 1998, p. 88).

Riporto questa citazione di Cavallero perché ben inquadra quello che permane dalla nascita dell’AT ad oggi come un grande problema: la mancanza di una coerenza interna tra definizioni dei concetti ed il loro impiego. Come ricordano vari autori, questa situazione è nata a partire dagli scritti stessi di Berne (Loria, 1990; Cavallero, 1991; Novellino, 2004; Allamandri et al., 2012).

Principalmente vengono rilevati quattro impieghi del termine. Stato dell’Io:

–          come fenomeno, nell’accezione propria di stato dell’Io;

–          come sinonimo di organo psichico;

–          come struttura alla base del modello evolutivo (diagramma strutturale di second’ordine);

–          come funzione, in questo caso accompagnato da un aggettivo (Libero, Adattato, ecc.).

Nel presente articolo, stato dell’Io verrà inteso unicamente nella sua accezione di fenomeno osservabile in un dato momento, mentre le informazioni neurali che rappresentano la base mentale degli stati dell’Io verranno nominate nei termini di contenuti, esperienze, “registrazioni” o stati della mente: in quest’ottica verranno spiegate le successive idee e la riformulazione del modello strutturale. Gli stati dell’Io funzionali (Genitore Critico, Bambino Adattato, ecc) sono considerate “funzioni” (funzione critica, protettiva, libera, ecc.) e non saranno qui trattate. Gli organi psichici saranno nominati come tali o specificatamente come neopsiche, archeopsiche ed esteropsiche.

Date queste debite premesse terminologiche, passiamo a considerazioni mirate riguardanti Adulto, Bambino e Genitore.

Berne ha scritto:

… i pazienti potevano essere osservati, oppure osservarsi nel passaggio da uno stato mentale e da un modello di comportamento a un altro. In modo tipico, c’era uno stato dell’Io caratterizzato da un esame di realtà e da una valutazione razionale sufficientemente adeguati (processo secondario), e un altro evidenziato da un pensiero autistico e da paure ed aspettative arcaiche (processo primario). Il primo aveva le peculiarità dell’abituale modo di procedere degli adulti responsabili, mentre l’altro era molto simile al modo in cui si danno da fare i bambini piccoli di varie età”  (Berne, 1961, p. 21).

“… dopo che le sue attività e i suoi sentimenti furono distribuiti nelle prime due categorie, rimasero alcuni stati residui che non potevano venir sistemati né in una, né nell’altra. Questi stati avevano una speciale caratteristica che ricordava il modo in cui gli erano apparsi i genitori. […] Tali stati dell’Io mancavano delle caratteristiche autonome sia dell’Adulto che del Bambino. Sembravano introdotte dall’esterno ed avevano un sapore imitativo” (Ibidem, p. 23).

Successivamente in Principi di Terapia di Gruppo (Berne, 1966) ha definito questi tre ordini di fenomeni in questo modo:

Ciascun essere umano ha a propria disposizione un numero limitato di stati dell’Io, che si suddividono in tre tipi. Gli stati dell’Io Genitore sono presi a prestito da figure genitoriali e ripropongono le emozioni, gli atteggiamenti, il comportamento e le reazioni di queste figure. Gli stati dell’Io Adulto riguardano la raccolta e l’elaborazione autonoma dei dati e la valutazione delle probabilità quali basi per l’azione. Gli stati dell’Io Bambino sono reliquie dell’infanzia della persona e ripropongono il comportamento e il modo d’essere di un particolare momento o epoca del suo sviluppo, anche se impiegano tutti quegli elementi in più di cui essa dispone in quanto persona adulta” (p. 169).

Parto da quest’ultima citazione per dire subito che non esistono IL Bambino o L’Adulto. Berne parla di stati dell’Io Genitore, stati dell’Io Adulto e stati dell’Io Bambino, al plurale. Ne ricaviamo che già nel suo pensiero egli aveva individuato che non esiste un solo stato dell’Io, per esempio un unico stato dell’Io Bambino, ma tanti e diversi stati dell’Io Bambino quanti sono gli stati della mente che si accompagnano indissolubilmente ad un preciso modello comportamentale. Come scrive Cavallero, ogni organico psichico “non organizza un unico stato dell’Io, ma una pluralità di stati nel tempo” (Cavallero, 1998, p. 89). Anche la Clarkson riporta: “Potenzialmente ci sono milioni di questi [stati dell’Io Bambino, N.d.A] giacché una persona ha una moltitudine di tali stati dell’Io passati disponibili” (Clarkson, 1992, p. 45. Trad. dell’autore).

Ora un pensiero sul rapporto e l’evoluzione degli stati dell’Io. Berne (1961) suddivise Adulto, Bambino e Genitori in tre zone, anch’esse chiamate Adulto, Bambino e Genitore, spiegando che, come in un gioco di bambole cinesi, ogni stato dell’Io ne contiene di precedenti. Successivamente, a partire dalle elaborazioni degli Schiff (1975), si è cominciato a teorizzare un’evoluzione degli stati dell’Io (nei termini di strutture) che vede dapprima la nascita di B0, seguito poi da A0 e G0; con la formazione di G0 si completa il B1 a cui seguirà il formarsi di A1 e G e si completerà così il B2; seguirà lo svilupparsi di A2 e G2. Sappiamo poi che diversi autori hanno inscritto nel G2 i tre stati dell’Io dei genitori reali, per esempio GM, AM e BM per la madre e GP, AP e BP per il padre.

Questo modo d’intendere, però, mostra il fianco sotto due aspetti. In primo luogo, è una contraddizione in termini inserire Adulto, fenomeno neopsichico, e Genitore, fenomeno esteropsichico, internamente al Bambino, che è di derivazione archeopsichica. In secondo luogo, in accordo con Clarkson (1992), uno stato dell’Io Adulto diventa automaticamente uno stato dell’Io arcaico nel momento successivo che, a seconda della potenzialità neopsichica attuale, potrà rivelarsi ancora Adulto o meno: esprimere a quattordici anni un certo stato dell’Io, che all’epoca della sua registrazione a tredici anni si poteva considerare Adulto, può essere ancora adeguato per quella particolare fase di vita; può invece non esserlo a vent’anni, quando quella stessa persona ha a sua disposizione molte più memorie storiche ed il suo stesso organismo è andato incontro a modificazioni. Inoltre, per come stiamo intendendo qui la cosa, risulta fuorviante diagrammare uno stato dell’Io internamente ad uno stato dell’Io evolutivamente successivo: si va così a cadere nella reificazione che trasforma l’idea che definisce un fenomeno, in un contenitore di altri fenomeni, analoghi e precedenti (Loria, 1990); semmai, in tal senso, potremmo forse parlare degli organi psichici e delle registrazioni di esperienze passate.

Sottolineo ora la differenza con cui Berne definisce gli stati dell’Io Bambino e Genitore da quelli Adulto. Mentre infatti i primi vengono identificati come la riproposizione di contenuti registrati nella nostra memoria, l’Adulto invece viene identificato come un aspetto di risposta funzionale a quel che sta succedendo nel qui-e-ora. Scrive Novellino a riguardo: “In realtà lo stato dell’Io Adulto rientra nella definizione generale di cosa è uno stato dell’Io: un insieme di pensieri, sentimenti e comportamenti. Quindi, quando parliamo di recupero dello stato dell’Io Adulto, si intende quel sistema integrato e correlato al “qui-e-ora” di capacità cognitive, intellettive ed affettive” (Novellino, 2004, p. 173). Da ciò si possono ricavare due pensieri.

Il primo è che se con Adulto possiamo intendere tutti quei fenomeni che, correlati al qui-e-ora, si dimostrano adeguati, allora anche stati dell’Io Bambino o Genitore possono essere intesi come il frutto dell’elaborazione neopsichica, purché venga soddisfatto il requisito di adeguatezza alla realtà. In altre parole, potremmo dire che in tutte quelle situazioni in cui viene riproposto un là-e-allora che risulti essere utile per risolvere o affrontare nella maniera più idonea una situazione nel qui-e-ora, dovremmo parlare di Adulto, anche se il fenomeno osservabile è palesemente Bambino o Genitore.

Berne riteneva che gli stati dell’Io funzionassero uno alla volta: quando fosse attivo uno, gli altri due in quel momento sarebbero rimasti inutilizzati. D’altra parte “vediamo che in molti casi alcune qualità del Bambino si integrano nello stato Adulto dell’Io in modo diverso dal processo di contaminazione. Il meccanismo di tale ‘integrazione’ resta ancora da chiarire, ma si può osservare che certe persone anche quando funzionano come Adulti hanno un fascino e una spontaneità naturali che ci ricorda le qualità dei bambini” (Berne, 1961, p. 174). Purtroppo Berne non ha mai approfondito questa idea, ma ci hanno provato altri autori. Un punto di vista interessante in merito è quello di Erskine (1991), che vede l’Adulto come uno stato dell’Io che integra in sé anche stati dell’Io arcaici (archeopsichici ed esteropsichici), in continua evoluzione ed adattamento mentre Bambino e Genitore rappresentano stati dell’Io patologici relativi a fissazioni.

Entrambe queste posizioni mostrano dei limiti: la teoria classica di Berne, lascia incompiuta la definizione di Adulto integrato e spiega il funzionamento degli stati dell’Io per compartimenti stagno, laddove invece il nostro cervello è un fitto sistema con miliardi di connessioni, perdendo il senso d’interezza e di complessità dell’individuo, l’idea che ci possa essere qualcosa di più, di unico e irripetibile, che tende ad orientare verso determinate scelte piuttosto che altre e che nel qui-e-ora risultano appropriate. Dall’altra parte, in accordo con Gregoire (2007), trovo che sia altrettanto limitante parlare di stati dell’Io Bambino e Genitore solo in termini di fissazioni e non di risorse. Ritengo infatti che l’espressione di un qualsiasi stato dell’Io vada sempre considerata in un’ottica contesto-dipendente. Stati dell’Io Bambino o Genitore sono fenomeni relativi a esperienze passate, traumatiche o non, “registrate” nell’archeopsiche o nell’esteropsiche: di per sé non è possibile valutarne la bontà o meno a prescindere dalla situazione in cui rivengono messi in atto. Per intenderci, un coltello è solo un oggetto, di per sé né buono né cattivo; ciò che invece conta è il modo in cui lo si usa: per esempio costruttivamente per sbucciare una mela o distruttivamente per minacciare o fare del male a qualcuno; ma anche così è sempre d’obbligo considerare il contesto di espressione: usare un coltello per fare del male ad una persona che incrociamo per strada è sbagliato ma difendersi con un coltello da un malintenzionato che ci ha aggrediti, pena la vita, può essere l’unica e adeguata soluzione di sopravvivenza possibile.

Mi ritrovo a propendere per una soluzione intermedia, simile a quella proposta da Clarkson (1992), in cui archeopsiche ed esteropsiche mantengono le “registrazione” di stati dell’Io (fenomeni) arcaici, traumatici e non, che l’Adulto, nella sua funzione integrativa, possa scartare (perché valutati non idonei), riproporre (perché considerati come una soluzione adeguata) o utilizzare come spunti per l’espressione di un fenomeno nuovo.

Il secondo pensiero legato all’Adulto riguarda l’adeguatezza del processo di pensiero rispetto all’attivazione neopsichica. Si considerino le seguenti frase [le sottolineature sono mie]:

ogni essere umano in possesso di una quantità sufficiente di tessuto cerebrale è potenzialmente capace di un esame di realtà adeguato” (Berne, 1961, p. 25).

Lo stato Adulto dell’Io è caratterizzato da un insieme autonomo di sentimenti atteggiamenti e modelli di comportamento che risultano adatti alla realtà presente” (Berne, 1961, p. 65).

Penso che Berne ritenesse che, nonostante ogni persona possa elaborare i dati a disposizione rispetto ad una certa situazione e partendo da questi operare un comportamento, per quanto quest’ultimo possa essere coerente e adeguato con il pensiero prodotto, potrebbe comunque non essere garanzia per ottenere il miglior risultato possibile, giacché non tutte le variabile potrebbero essere state individuate o esaminate in modo sufficientemente opportuno. Quindi, un conto è la svalutazione, secondo la terminologia Schiffiana (Schiff, 1975), di determinati elementi; un altro è l’insufficienza di elaborazione dei dati dovuta, per esempio, ad una modalità di pensiero più semplice a causa di una scarsa scolarizzazione o, in campo relazionale o professionale, alla mancanza di esperienza. È innegabile che il fattore tempo giochi poi un ruolo fondamentale: non sempre le situazioni permettono di fermarsi a ragionare.

Dunque, il cervello inteso come un muscolo, la cui continua attivazione provoca l’aumentare di connessioni e il miglioramento dei processi cognitivi: il lavorio di un cervello più “allenato” può portare ad una scelta di opzioni possibili più vasta, più varia e, forse, più adeguata. Ciò non toglie che una scelta, pur non risultando la più performante o la più redditiva in senso assoluto, non si dimostri comunque adeguata all’età e al ruolo della persona che l’ha compiuta. Dunque l’uso di stati dell’Io Adulto non elimina la possibilità di errori di valutazione, anzi come dice Carol Shadbolt (2012), il fatto di sbagliare può mostrare diverse sfumature positive, una delle quali è che se si sbaglia vuol dire che si sta provando a fare qualcosa, magari di assolutamente nuovo e importante. Dunque anche sbagliare può essere Adulto.

Parliamo adesso di Genitore. Differentemente da molti altri animali, quando viene al mondo il cucciolo dell’uomo non è dotato di un corredo genetico espresso per cui possa cavarsela da solo. La sua sopravvivenza dipende dalla relazione con un caregiver che possa curarsi di lui fino a quando non sia pronto a realizzarsi in autonomia. Sia fisicamente che psicologicamente, il bambino ha necessità di essere accompagnato per mano nel suo viaggio alla scoperta di sé e del mondo. In questo suo cammino incontrerà tutta una serie di stimoli, alcuni dei quali saranno sufficientemente semplici da essere autonomamente scoperti e interpretati; altri, invece, si riveleranno talmente complessi da divenire ingestibili e incapibili. Ecco allora che il grande, si farà carico della richiesta relazionale del piccolo, accogliendo, masticando, rendendo più digeribili e restituendo contenuti altrimenti inconoscibili, non assimilabili e non tollerabili. Da questi presupposti il pensiero di Winnicott che ci ha detto che non possiamo pensare in termini psicologici ad una cosa che si chiama bambino in sé e per sé, ma quello sarà unicamente e inevitabilmente uno dei due poli di una realtà multi-relazionale sempre formata da almeno un grande e un piccolo. Insomma, il grande come un vero e proprio organo psichico e fisico esterno.

Berne, non a caso, ha chiamato Genitore l’espressione di un fenomeno esteropsichico. Infatti, se è vero quel che dice Winnicott sul bambino, è vero anche l’inverso, cioè non ci può essere un genitore senza bambino (e quindi non ci può essere Genitore senza Bambino). Scrive la Romanini:

Genitore è invece un termine in sé transazionale, espressione anche semanticamente di rapporto (si è genitori di qualcuno o non lo si è affatto)” (Romanini, 1999; p. 63).

Quindi parlare di esteropsiche e di Genitore non significa solo parlare di struttura e di fenomeni ma del modo stesso in cui il bambino si è costruito persona e come ha costruito il mondo intorno a sé.

I bambini lo sanno: il grande è fondamentale. E non solo un grande qualsiasi, ma quel loro particolare grande che è fuori ma anche dentro, che è nel mondo e che, meglio di chiunque altro, conosce il mondo, perché insieme gli hanno dato significato. Il piccolo sa che mamma e papà sono parte di lui e perderli significa perdersi.

Un altro pensiero sul sistema esteropsichico mi viene ancora da questa frase di Maria Teresa Romanini citata da Cavallero (2013):

Il Genitore è […] di fatto un’emanazione e un elaborato del Bambino” (p. 70)

Nella mia personale visione ritengo che quando viene “registrata” un’esperienza nel sistema esteropsichico, essa sia un prodotto di un particolare stato neopsichico qui-e-ora, automaticamente divenuto, nel momento successivo, un contenuto archeopsichico a cui sarà per sempre legato. Quindi ciò che realmente viene introiettato rispetto a quella situazione, non sono due stati dell’Io, ma due stati dell’Io in relazione tra essi: quello del bambino e la visione che quel dato bambino in quel preciso momento aveva del suo genitore.

Fin qui le mie riflessioni sulla teoria AT. Ricapitolando:

–    vi sono una pluralità di stati della mente “registrati”;

–    qualsiasi nuovo stato dell’Io Adulto diviene un contenuto arcaico nel momento successivo;

–    l’Adulto è uno stato dell’Io contestuale e situazionale mentre Genitore e Bambino si riferiscono a contenuti fissati, pertanto il primo e i secondi, per la loro diversa natura descrittiva, si possono sovrapporre;

–    i contenuti arcaici, traumatici e non, di archeopsiche ed esteropsiche non hanno una valenza di significato in sé e per sé: ciò dipende da come vengono utilizzati nel qui-e ora;

–    la neopsiche si evolve col tempo e l’esperienza e la sua attivazione non garantisce il successo rispetto ad un obiettivo. L’utilizzo di un certo contenuto, che nel passato si era rivelato adeguato, e pertanto Adulto, può non esserlo nel presente perché la persona sarà diversa così come potrebbero esserlo le circostanze;

–    ogni nuovo contenuto esteropsichico è il prodotto dell’introiezione di una determinata esperienza nel qui-e-ora;

–    ad ogni stato dell’Io Genitore corrisponde un determinato stato dell’Io Bambino.

 

Stati dell’Io e neuroscienze

Berne scrive i suoi testi AT tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta. Da allora, nel campo neuroscientifico, sono state fatte notevoli scoperte. Generalmente la maggior parte di esse tendono a confermare il corpus teorico AT. Quel che si dirà a breve non vuole essere una descrizione esaustiva, ma un ideale ponte tra quel che prima si è detto sugli stati dell’Io e la successiva proposta di un nuovo modello strutturale. Il testo di riferimento per molte delle seguenti considerazioni sarà la seconda edizione di “La mente relazionale” di Siegel (2012), che si ritiene essere un testo completo e aggiornato.

Come prima cosa: non esistono gli organi psichici così come ipotizzati da Berne. Qualsiasi manuale di fondamenti neuro-anatomici parlerà di neuroni, sinapsi e di strutture cerebrali, ma tra questi non si ritrovano organi che possano ricordare neopsiche, esteropsiche e archeopsiche.

Gli organi psichici dell’AT in quanto tali non esistono ma ciò non toglie che Adulto, Bambino e Genitore si possano osservare come fenomeni reali. A mio avviso il punto iniziale sta dunque nel riformulare il concetto di organo psichico in accordo con quanto sostiene Giordano (2012):

La teoria neuropsicologica degli stati dell’Io deve essere sviluppata “nativamente”, cioè a partire dai contenuti dell’AT” (p. 106).

Nel nostro cervello si trovano oltre cento miliardi di neuroni in grado di creare connessioni (collegamenti sinaptici) con migliaia di altri (Siegel, 2012). Ogni giorno, senza potercene rendere conto, dentro la nostra testa si formano nuovi collegamenti sinaptici e se ne disfano degli altri: è la plasticità neurale, funzionante in base al principio che nuove esperienze tendono a creare nuove connessioni, le reiterazione e l’utilizzo di queste porta ad un loro miglioramento e rafforzamento, mentre la mancanza d’esperienza o il non utilizzo spingono l’organismo verso un processo di morte cellulare, il pruning (potatura) dei collegamenti sinaptici (Ibidem).

Oltre a creare connessioni, i neuroni si raggruppano tra loro a formare particolari strutture cerebrali che hanno determinate funzioni: di elaborazione di stimoli, del pensiero, di deposito delle tracce mnemoniche, ecc. Queste non funzionano in maniera isolata ma sempre in un’ottica di sistema: quindi non è possibile pensare che un certo processo possa essere identificato unicamente in una data struttura. Figuriamoci dunque se sia possibile pensare ad un unico organo psichico come l’esteropsiche, capace di veicolare qualcosa di così complesso come uno stato dell’Io Genitore.

Da qui la definizione che attribuisco al concetto di organo psichico:

intendo con il termine di “organo psichico” una rete di collegamenti neurali che mette in stretta connessione strutture cerebrali diverse che, a partire dalla percezione di uno stimolo, attivano processi legati alla memoria, al comportamento, alle emozioni, all’esperienza viscerale e al pensiero.

Nello specifico:

Archeopsiche:  è quella rete di connessioni neurali che, a partire dalla percezione di uno stimolo, rievoca in maniera automatica una risposta somato-emotivo-viscerale simile o uguale a quella di un’esperienza pregressa; essa può essere adeguata o meno al contesto situazionale.

Esteropsiche:  è quella rete di connessioni neurali che, a partire dalla percezione di uno stimolo, rievoca in maniera automatica una risposta somato-emotivo-viscerale su base imitativa; può essere adeguata o meno al contesto situazionale.

Archeopsiche ed esteropsiche sono dunque realtà automatiche, dal funzionamento rapido, fondate su meccanismi stimolo-risposta. Diversamente la neopsiche è un sistema più lento, valutante e integrante, che punta all’ottimizzazione.

Neopsiche: è quella rete di connessioni neurali che permette una piena elaborazione delle informazioni provenienti da uno stimolo e porta all’attivazione di comportamenti ottimali, o se non altro adeguati, dovuti a processi di pensiero attuali o rielaborati a partire da esperienze pregresse di origine interna o imitativa.

Ritengo che queste definizioni tengano conto sia della reale natura del sistema nervoso sia delle sue potenzialità di espressione fenomenica in termini di stati dell’Io.

Proviamo ora a considerare l’evoluzione del sistema nervoso. Sappiamo che al momento della nascita il cervello umano non è completamente formato e benché molte siano le funzioni che può adempiere, molte altre, in particolare quelle superiori, saranno al momento inaccessibili. Collegando questo processo maturativo con la alla teoria del cervello tripartito di MacLean, la Fantini ha scritto:

Il cervello primitivo mira alla sopravvivenza del singolo e sa usare l’aggressione e la fuga. Il cervello intermedio è l’interfaccia tra individuo e ambiente e produce continue modifiche corporee e psichiche in base alle sollecitazioni; è fatto per comunicare. Il cervello superiore spazia nelle conquiste di nuove frontiere con l’intelligenza, la ponderazione e il senso di appartenenza. Questo schema suggerisce che ciascun livello di evoluzione cerebrale disponga di una propria serie di sistemi motivazionali specifici. I sistemi motivazionali superiori affiancano quelli dei livelli inferiori senza sostituirli. Queste considerazioni sono molto importanti per definire livelli diversi cerebrali o psichici, ciascuno con parziale autonomia.

Berne traduce questa complessa suddivisione cerebrale nella teoria degli stati dell’Io, dove interpreta l’individuo come una somma di diverse componenti personologiche, nate in epoche differenti dello sviluppo, coesistenti ed integrabili.” (Fantini, 2012).

Questo, dunque, il primo grande punto di contatto che unisce le neuroscienze alle teoria berniana: in accordo con Berne (1961), lo sviluppo cerebrale mostra forme di pensiero, di affettività e di azione differenti a seconda del grado di sviluppo dell’individuo.

Da qui, però, la domanda: perché un essere umano adulto, nel pieno delle sue capacità, dovrebbe aggrapparsi all’utilizzo di strategie legate al passato quando invece potrebbe affidarsi al lavoro delle sue facoltà mentali per ricercare nuove prospettive e soluzioni? Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro e partire da quanto precedentemente detto sugli stati dell’Io Bambino e Genitore e su archeopsiche ed esteropsiche.

Ho prima sottolineato che nella definizione che Berne dà di Adulto, Bambino e Genitore si può notare che mentre il primo è collegato ad una funzione attiva rispetto al momento contingente, i secondi riguardano invece contenuti fissati. Lo stesso vale per la definizione data poco sopra di neopsiche, che prevede un’elaborazione delle informazioni attuali ed una risposta anche su base rievocativa purché adeguata rispetto al contesto, e di Archeopsiche ed Esteropsiche, legate alla sola rievocazione di risposte pregresse o introiettate. Sempre relativamente alla teoria ho detto anche che quel che io considero come Adulto integrato è proprio questo funzionamento neopsichico, in cui un contenuto del passato viene rievocato se valutato adeguato e idoneo alla situazione. Ora, se una cosa viene rievocata sicuramente sarà “registrata” da qualche parte in memoria.

Scrive Siegel (2012):

La memoria […] è l’insieme dei processi con cui gli eventi del passato influenzano le risposte future […]. Una simile definizione ci consente di capire in che modo gli avvenimenti passati possano influire in maniera diretta e che cosa impariamo, anche se di tali avvenimenti non necessariamente abbiamo un ricordo conscio; le esperienze precoci modellano il nostro modo di comportarci e di avere rapporti con gli altri anche se non siamo in grado di ricordare quando queste prime esperienze di apprendimento si sono verificate.” (p. 46)

E poco più avanti aggiunge:

Si pensa che la stimolazione di singole o plurime componenti di determinate reti neurali alteri la loro probabilità di venire attivate in futuro: se un circuito è stato eccitato in passato, la sua probabilità di esserlo nuovamente aumenta in maniera direttamente proporzionale alla ripetitività della sua attivazione. […]

Le esperienze influenzano in maniera diretta la struttura del cervello; […] questo processo viene chiamato sviluppo cerebrale “esperienza-dipendente”, definizione che si riferisce in generale ai meccanismi attraverso i quali le esperienze determinandola creazione, il mantenimento o il rafforzamento dei collegamenti neuronali.[…]

Il modo in cui noi ricordiamo il passato è determinato da quali componenti, nell’imponente rete di circuiti cerebrali, verranno successivamente attivate” (Ibidem, pp. 46-47).

Esistono vari modi di classificare il fenomeno memoria: si può per esempio distinguere tra memoria sensoriale, di lavoro, a breve termine e a lungo termine; oppure tra memoria procedurale e memoria dichiarativa (Bear, Connors & Paradiso, 1996). Si può anche parlare di memoria implicita ed esplicita.

La memoria implicita è quella basata su meccanismi automatici stimolo-risposta: è la memoria del condizionamento a certi stimoli, come per un bambino piccolo che al vedere un oggetto sgradito si mette a piangere senza un particolare ragionamento; la memoria esplicita è invece quella di evocazione attiva voluta dal soggetto e che si può suddividere in due forme di rappresentazione: semantica, per quanto concerne dati precisi (per esempio un indirizzo o il nome di una persona o conoscenze apprese) ed episodica, a sua volta scomponibile in memorie autobiografiche, riguardanti il senso di sé dell’individuo in quella situazione, somatiche, relative alle percezioni che il corpo ha registrato, percettive, concernenti i dati sensoriali, emozionali, rispetto allo stato umorale, e comportamentali, riferite alle azioni in corso nel momento d’interesse (Siegel, 2012).

Gildebrand (2003) mette in collegamento la memoria implicita con gli stati dell’Io più arcaici. Fondamentale si rivela essere l’amigdala che svolge “un ruolo precipuo nell’immagazzinare il significato emotivo di una particolare esperienza” (Pinel, 1990, p. 377). Nel bambino essa si sviluppa ben presto laddove ancora non sono maturati né la corteccia né l’ippocampo (Fantini, 2012). Altre strutture coinvolte nella memoria implicita sono i gangli basali, la corteccia, motoria, la corteccia percettiva e alcuni regioni limbiche (Siegel, 2012).

Siegel (Ibidem) conferma su base neuroscientifica, quanto in AT è stato scritto sugli stati dell’Io arcaici e la strutturazione della personalità a partire da Berne fino ad oggi:

La memoria implicita è mediata da regioni cerebrali che non richiedono una partecipazione della coscienza ai processi di registrazione e di recupero (Voss, Paller, 2008; Thomson, Milliken, Smilek, 2010). […] I profili neurali che vengono riattivati coinvolgono circuiti cerebrali che sono parte essenziale della nostra esperienza quotidiana della vita: comportamenti, emozioni, sensazioni corporee e immagini. Questi elementi impliciti sono fondamentali nel determinare il nostro senso soggettivo di noi stessi: noi agiamo, sentiamo e immaginiamo senza necessariamente riconoscere l’influenza delle passate esperienze sulla nostra realtà presente” (p. 52).

“Con l’accumularsi delle esperienze il cervello del bambino acquisisce progressivamente la capacità di riconoscere similarità e differenze, e attraverso questi processi comparativi la sua mente è in grado di operare “ricapitolazioni” e di ottenere rappresentazioni generali. Ciò costituisce un aspetto essenziale dell’apprendimento: tali generalizzazioni formano la base di “modelli mentali” o “schemi” che aiutano il bambino (in effetti ognuno di noi) a interpretare il presente e a prevedere le future esperienze. […] La mente incomincia quindi a creare complessi modelli del mondo a partire dai primi giorni di vita, e possiede probabilmente fin dall’inizio la capacità di operare generalizzazioni in base alle esperienze. […] I modelli mentali inconsci possono avere una grande influenza sulle esperienze percettive” e “[…] hanno un ruolo centrale nei nostri processi di apprendimento” (pp. 52-53).

Stati della mente che “sono parte della memoria emozionale del bambino, vengono appresi a livello implicito durante il primo anno di vita; ma non diventano semplicemente ricordi, perché plasmano l’architettura del Sé che si sta sviluppando” (p. 55).

“Le modalità con cui nel bambino vengono attivati particolari stati mentali possono essere considerate come forme di memoria implicita. Frequenti esperienze di terrore e paura, per esempio, possono venire registrate e rimanere profondamente impresse nei circuiti cerebrali come stati della mente; se si ripetono in maniera cronica, questi stati possono in seguito venire attivati (richiamati) con maggiore rapidità, fino a diventare tratti caratteristici dell’individuo (Perry, Pollard, Blakely et al., 1995)” (p. 55).

È solo a partire dai tre anni che si sviluppa la memoria esplicita, con la maturazione della corteccia orbitofrontale e del lobo temporale mediale che include l’ippocampo (Ibidem). Quest’organo non è la sede della memoria ma riveste una funzione centrale nel fissare i ricordi (Pinel, 1990). Il bambino è in grado di avere ricordi propri di sé e del mondo e grazie allo sviluppo della corteccia prefrontale è anche in grado di dare un ordine a queste registrazioni (Ibidem). Si può dire che solo da questo momento il bambino è in grado di attivare stati dell’Io Genitore, giacché per comportarsi così come un grande, egli deve prima riconoscere che quello esiste come parte separata da sé e ne deve aver registrato il modo di agire. Sicuramente un ruolo assai importante giocano in questo processo anche i neuroni specchio, come spiega la Fantini (2012), che svolgeranno una funzione chiave nella replicazione di comportamenti e modi di fare.

Nel consolidarsi delle memorie esplicite risulta fondamentale la corteccia orbitofrontale, il cui sviluppo permette anche l’apprendimento e l’adattamento all’ambiente con particolare riferimento al qui-e-ora, (Gildebrand 2003): la corteccia orbitofrontale, insieme ad altre parti dell’area prefrontale, è importante per quel che concerne la relazione di attaccamento, la coscienza autonoetica (la capacità di spostarsi con la mente nel tempo), per la valutazione di rappresentazioni percettive/valutative provenienti dall’amigdala, per la regolazione affettiva e per i meccanismi di lettura della mente altrui (empatia, mind sight e mentalizzazione) (Bateman & Fonagy, 2006; Siegel, 2012). L’associazione con l’espressione di uno stato dell’Io Adulto appare quasi scontata.

Dunque lo sviluppo stesso del sistema nervoso sembra confermare la presenza di tre ordini differenti di esperienze mnemoniche: una relativa ad esperienze arcaiche collegate a meccanismi stimolo-risposta; una in cui le esperienze del passato vengono registrate con una predominante componente emotivo/affettiva piuttosto che cognitiva; infine una in cui il cervello, oramai maturo, permette la costruzione di rappresentazioni formate a partire da esperienze vissute in una piena elaborazione di significati. Ma se queste sono le basi su cui si sviluppa uno stato dell’Io, resta da chiarire il come mai, in certe situazioni, un individuo anziché sfruttare tutto il suo potenziale utilizzi invece vecchie strategie penalizzanti, limitanti o comunque inadeguate.

In questo gioca un ruolo fondamentale il rapporto tra lo stress dovuto a traumi e le emozioni.

Generalizzando, quando uno stimolo raggiunge un organo di senso, l’informazione sensoriale passa dapprima nel talamo e da qui può prendere due strade: quella per un’elaborazione in corteccia (via alta) e quella verso l’amigdala (via bassa) che è uno degli organi cerebrali connessi all’elaborazione delle emozioni. Le emozioni, scrive Siegel (2012), rappresentano dei veri e propri momenti di cambiamento nel funzionamento cerebrale e servono a dare un significato ad una certo stimolo per preparare il corpo all’azione. Alle emozioni, infatti, è dovuto l’attivarsi di particolari circuiti legati al sistema simpatico che proiettano il corpo verso l’azione, sia essa di fuga, di aggressione o di freezing. Ekman sostiene che da esse dipendono la qualità della vita e la sopravvivenza nostra e di chi ci sta attorno, ma di contro possono portare tre grosse problematiche: avere un’intensità errata rispetto alla situazione, manifestarsi in maniera eccessiva o sottodimensionata, risvegliarsi in contesti non pertinenti (Ekman, 2003).

Il punto della questione è che la gestione stessa del sistema emotivo ad opera dell’amigdala dipende dall’area frontale, e in special modo della corteccia orbitofrontale, la cui maturazione però, come detto precedentemente, è successiva al pieno lavoro dell’amigdala stessa. Ecco dunque che eventi traumatici reiterati o di forte intensità nei bambini da un lato stimolano la corticale surrenale alla produzione del cortisolo, un ormone steroideo, che può provocare la degenerazione dei neuroni dell’ippocampo (Bear et al., 1996), mentre dall’altro si può verificare il rilascio di catecolamine, a seguito dell’attivazione del sistema autonomo, che “avrebbero invece un’azione diretta sull’amigdala” (Siegel, 2012, p. 77) e sui circuiti dell’area neocorticale che gestiscono la regolazione emotiva (Shore, 1996). A seconda della durata dell’evento stressante o della sua intensità o reiterazione questo stato di cose può portare a bassi livelli ad un ricordo molto vivo caratterizzato da una forte componente emotiva oppure, ad alti livelli, alla formazione di memorie implicite che possono comprendere “elementi come impulsi comportamentali alla fuga, reazioni emozionali, sensazioni corporee e immagini intrusive correlate al trauma” (Siegel, 2012, p. 78). Inoltre lo stress può avere “effetti negativi sui meccanismi epigenetici che regolano l’espressione genica all’interno del sistema” (Ibidem, p. 16). Anche in questo caso le neuroscienze tenderebbero dunque a confermare l’idea di psicopatologia dovuta ad eventi traumatici secondo l’immagine della pila di monete proposta da Berne: più è alto il loro numero e/o più sono ammaccate più è facile che la struttura tenda a crollare (Berne, 1961).

Si tenga conto infine che il bambino, per sua stessa natura, ha sicuramente meno opzioni d’azione rispetto ad un adulto e tenderà a reagire alla situazione di stress sempre nel medesimo modo, andando a rinforzare nuovamente il circuito.

Il lavoro clinico con diversi pazienti mi ha portato a maturare l’idea che fosse proprio l’emozione connessa ad un determinato stimolo, sia esso percepito nella situazione contingente, ricordato o immaginato, ad essere l’innesco per l’attivazione di un determinato stato dell’Io. Ekman ritiene che l’emozione sia un prodotto dell’evoluzione umana, atto a velocizzare la risposta ad un qualche evento. Purtroppo se ciò può essere utile in certi contesti, altre volte “può anche causare guai, poiché quando siamo in balia di un’emozione sminuiamo o ignoriamo le conoscenze già in nostro possesso che potrebbero sconfessarla, proprio come ignoriamo o sminuiamo le nuove informazioni offerte dall’ambiente che non collimano con essa” (Ekman, 2003, p. 50). Anche in questo caso le neuroscienze sembrano venirci incontro, confermando questa ipotesi.

Sappiamo infatti che le varie informazioni sensoriali passano attraverso il talamo prima di arrivare in corteccia: gli esperimenti di LeDoux dimostrano che la via rapida, che dal talamo invia informazioni direttamente in amigdala, è sufficiente, anche in caso di lesione della corteccia uditiva, per creare un meccanismo di paura condizionata ad un suono, che il ratto, per via del danno, non può nemmeno sentire. Il comportamento relativo allo stato di paura viene comunque attivato (Pinel, 1990).

Siegel intende uno stato della mente come “l’insieme dei pattern di attivazione del cervello in un determinato momento” (Siegel, 2003, p. 193) e ritiene che le emozioni “svolgano un ruolo centrale nel determinare come uno stato della mente può collegare fra loro […] elementi distinti del processing neurale” (Ibidem, pp. 193-194). Secondo l’autore uno stato mentale, risultato di una particolare attivazione cerebrale, può diventare una configurazione di attività cerebrale registrata in memoria e ritiene che le emozioni possano essere l’elemento d’innesco giacché la loro regolazione “dirige i flussi di energia associati ai cambiamenti negli stati di attivazione del cervello” (Ibidem, p. 196) ed è mediata dalle regioni limbiche e prefrontali che hanno un’estesa innervazione e di rimando un’altissima funzionalità di coordinamento:

Uno stato della mente è assemblato alterando le modalità con cui aree differenziate vengono collegate tra loro. In altre parole, uno stato della mente è creato da variazioni nei processi di integrazione; le emozioni sono di conseguenza alla base dei meccanismi che portano alla costruzione e al mantenimento di uno stato della mente. Sono inoltre direttamente collegate ai circuiti cerebrali responsabili dell’attribuzione di valori e significati alle rappresentazioni mentali” (Ibidem, p. 213).

Verso un nuovo modello strutturale

Quanto finora detto, a partire dalla teoria AT fino alle neuroscienze, costituisce il ponte ideale per un aggiornamento del modello storico/strutturale. Quello attuale pur di immediata lettura mostra il fianco sotto diversi punti:

–    gli stati dell’Io sono fenomeni e non cose e, in quanto tali, al loro interno non possono contenere alcunché;

–    per le rappresentazioni con cui le informazioni vengono registrate nella nostra memoria, dovremo invece parlare di stati della mente (Allen, 2001) e non di stati dell’Io che per loro stessa natura comprendono un comportamento visibile e identificabile;

–    uno stato dell’Io esteropsichico non può essere, per definizione, una manifestazione archeopsichica, derivando da un differente organo psichico;

–    viene persa, o se non altro resa poco immediata, la dimensione psicopatologica in relazione ai traumi;

–    uno stato dell’Io Adulto ha una funzione nel qui-e-ora ma può benissimo utilizzare contenuti là-e-allora se questi soddisfano il requisito di adeguamento alla realtà;

–    stati della mente espressi come Bambino o Genitore hanno di per sé una valenza neutra e diventano patologici se il loro utilizzo viene veicolato da meccaniche automatiche che non tengano conto delle reali possibilità della persona.

In AT vengono utilizzati sopratutto due modi per visualizzare il modello strutturale degli stati dell’Io: quello illustrato dagli Schiff et al. (1975), a sinistra nell’immagine, e quello, a destra, presentato dalla Hennig (2013), a partire da due articoli scritti da F. English e da Cornell, e presente anche nel modello del transfert secondo Grégoire (2012). In questo, stati dell’Io Adulto, Genitore e Bambino mostrano ognuno una propria evoluzione nel tempo e mettono in evidenza il loro costante rapporto: ad un Bambino di una certa epoca corrispondono l’Adulto e il Genitore di quella stesso identico momento storico (Figura 1).

A mio avviso quest’ultimo modello risulta molto più fedele alle considerazioni fatte precedentemente. L’unico neo è riferibile all’Adulto che, in accordo con la Clarkson (1992), rimane un fenomeno relativo al presente e successivamente soggetto a memorizzazione (se nuovo) o al suo rafforzamento (se attivato integrando esperienze archeopsichiche o esteropsichiche).

La proposta che avanzo è quella di considerare un modello strutturale degli stati dell’Io come quello suggerito in figura 2.

I tre cerchi più grandi, col contorno in grassetto rappresentano gli organi psichici, per come precedentemente definiti. Possiamo intendere che uno stimolo percepito o rievocato, a seconda di precedenti esperienze, possa generare una risposta di tipo neopsichico, archeopsichico o esteropsichico. Nel primo caso, la neopsiche, un sistema di connessioni predisposte all’elaborazione e all’integrazione, potrà trarre vantaggio da stati mentali precedenti per produrre una risposta adeguata oppure crearne una ex novo; negli altri due casi potremmo avere, a seconda della storia traumatica dell’individuo, una risposta automatica derivata da circuiti neurali rappresentanti tre ordini di esperienze a seconda del livello di maturazione cerebrale dell’epoca: una molta antica su dinamiche stimolo-risposta che con buona probabilità avrà condizionato l’intera struttura psichica; una ancora su base preminentemente affettiva, laddove le connessioni legate alle aree integrative risultavano all’epoca ancora immature; una fondata su meccanismi di riflessione maturi che però, in quanto fissati, potrebbero comunque non essere adeguati al contesto presente.

Si noti che il modello mostra chiaramente la relazione intercorrente tra uno stato della mente riferito a sé o introiettato da una figura genitoriale, sottolineando la riproposizione nel dialogo interno di quel particolare dialogo esterno, storicamente avvenuto, tra quelle due precise persone e tra quei due precisi stati dell’Io. Su questo punto, però, avanzo un ulteriore pensiero.

Va considerato infatti che alcuni avvenimenti della nostra vita non accadono necessariamente in relazione. Un bambino potrebbe farsi male cadendo da un’altalena mentre sta giocando da solo nel giardino di casa: questa è un’esperienza, uno stato della mente, che il bambino può registrare come isolata da una relazione. Secondo me, però, il punto fondamentale rimane quello che accade dopo. Quando il bambino si metterà a piangere ci sarà qualcuno presente per aiutarlo, accudirlo, sostenerlo? Oppure ci sarà qualcuno che lo sgriderà perché stava facendo una cosa pericolosa o perché ha rovinato il vestito? E se non ci fosse nessuno disposto ad accoglierlo nel suo dolore? Quindi sicuramente esistono degli stati dell’Io archeopsichici che potremmo dire “isolati”, ma forse non tanto questi quanto la successiva esperienza relazionale risulterà importante per la formazione della personalità e la strutturazione del sé.

La rappresentazione tiene inoltre conto della natura evolutiva della persona nel tempo, così che ogni stato della mente successivo dipende in qualche maniera da quello che l’ha preceduto; mostra al contempo la centralità dei processi neopsichici di elaborazione di nuovi contenuti e di integrazione con altri già presenti.

Infine si ritiene che il modello possa integrarsi facilmente con le fondamenta teoriche dell’AT già esistenti, senza particolari sconvolgimenti o senza dover attuare cambiamenti che le snaturino.

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